Centro Studi Repubblica Sociale Italiana
L'8 settembre nei ricordi del reduce Claudio De Ferra PDF Stampa E-mail
Scritto da Redazione   
lunedì 04 novembre 2013

 

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 L’impatto con la caserma era stato terribile. Quell’edificio, davanti al quale era passato tante volte fin da ragazzo e dal quale aveva visto uscire tanti bravi soldatini sardi pronti per la parata, gli appariva ora, dall’interno, un immenso alveare vuoto. Era veramente immenso ed era una desolazione vederlo vuoto, esangue, privo di vita. Per attraversarlo occorreva tempo e pazienza, ad ogni edificio ne seguiva un altro, e poi un altro ancora. C’erano le sale delle armi, tante, alcune vere ed altre finte, da esercitazione.

Un senso di sgomento e di sconforto lo prese la prima notte, quando, assieme al fratello Fausto, cercò di arrabattarsi per ricavare un giaciglio. Gli avevano detto: «Andate su alla caserma di via Rossetti e chiedete al magazzino-vestiario la vostra dotazione. Là potrete sistemarvi in una camerata qualunque, tanto non c’è più nessuno».

Quel giorno i due fratelli si erano presentati, primi fra tutti, almeno a Trieste, alla caserma della Milizia di via Gambini. Lì c’erano ancora alcuni anziani militi della 58° legione “S.Giusto” che gli aprirono il portone con fare circospetto. Li guardarono come fossero dei marziani.

«Chi siete? Cosa volete?».

Era il 23 settembre del 1943, pochi giorni dopo la proclamazione dell’armistizio. Generali, ufficiali, soldati erano tutti scappati dopo l’annuncio alla radio del Maresciallo Badoglio, capo del Governo, che l’Italia si era arresa. Era stato il segnale del “si salvi chi può”. Perché tutti avevano capito che la vendetta dei tedeschi traditi sarebbe stata tremenda. Tutti meno quell’incosciente che aveva parlato. Che faceva finta di ignorare che sul suolo patrio erano accampate decine di divisioni tedesche, decise a battersi fino alla morte contro chiunque.

Solo pochi reparti del Regio Esercito non avevano voluto sottostare all’iniquo ordine di rivolgere le armi contro l’alleato che era giunto in Italia per aiutarci a combattere l’invasore, non per attaccarci. E con essi, molti uomini dell’Aeronautica e della Marina. Al completo la Milizia, rimasta a guardia delle sue caserme, che, altrimenti, avrebbero subìto la stessa sorte di quelle dell’Esercito, cioè il saccheggio di tutto il ben di Dio che vi si trovava.

La Milizia non tradiva. Dopo il 25 luglio si era tolta disciplinatamente la camicia nera ed i fascetti sul bavero, ch’erano stati sostituiti dalle stellette. Erano rimaste le fiamme nere, simbolo di ardimento, perché erano appartenute agli arditi della prima guerra mondiale. Dove altro si sarebbero potuti dirigere i due fratelli, se non alla caserma della Milizia?

Lo stupore, l’incredulità di quei bravi soldati al vedersi di fronte due ragazzi puliti e ben vestiti che venivano a fare i volontari per una guerra ormai perduta, malamente, disonorevolmente perduta. Forse avevano avuto anche loro la tentazione di gettare quella pesante divisa che li metteva contro il mondo intero, nemici dell’invasore che avanzava vittorioso, e nemici ora anche dell’alleato che il loro Governo aveva infamemente tradito.

Ma adesso, dopo l’arrivo di quei due ragazzi non l’avrebbero più potuto fare. Perché quei due figli di papà che nessuno aveva chiamato e che nella fuga generale pensavano ancora alla Patria, li obbligavano a restare. Poveri vecchi, bravi militi cui era stato insegnata prima di tutto la fedeltà alla bandiera, prima, molto prima di quella al Fascismo, che moriranno tutti pochi mesi dopo in una imboscata tesa dai partigiani di Tito nei pressi di Rifembergo, sul Carso, ad una ventina di chilometri da Trieste.

I due fratelli, l’8 settembre, avevano preso immediatamente la loro decisione. L’avevano maturata durante il periodo del governo del Maresciallo Badoglio, che si poteva ben immaginare a cosa preludesse.

Senza pensarci su, avevano indossato la camicia nera, che voleva dire “non ho tradito”, ed erano corsi a riaprire la sede centrale della Federazione fascista, di fronte ai ruderi dell’antico Teatro romano. Altri erano arrivati da varie parti della città, senza neanche conoscersi, in tutto una trentina. C’era anche qualche anziano tra loro, ma quasi tutti erano sui diciotto o giù di lì.

Come in tutti i periodi rivoluzionari, avveniva anche qui che fossero i ragazzi a prendere l’iniziativa, nell’attesa che i meno giovani riassumessero i posti di comando. E presto arrivarono anche quelli. Uno fra tutti si distingueva per coraggio e determinazione. Era stato un semplice dirigente sindacale, ma ora assumeva il comando della Federazione triestina e di quel manipolo di ragazzi che si era formato e andava crescendo di ora in ora.

Si chiamava Idreno Utimperghe, nome e cognome ben strani. Era toscano, di Pistoia. Di lui si sentirà parlare un anno e mezzo dopo, quando, diventato Federale di Pistoia, si troverà per caso nella colonna di Mussolini a Dongo e verrà fucilato sul lungolago assieme ai ministri della RSI. Atto di giustizia popolare, si dirà poi, per non far pagare a nessuno quel crimine.

Utimperghe condusse i suoi “squadristi”, come si erano autodefiniti quei ragazzi nel ricordo di quelli del 1922, a riaprire le Federazioni di Venezia e di Padova. Anzi a Venezia li portò alla conquista della Prefettura, che, nel cuor della notte, venne assalita da un piccolo reparto che vi giunse a bordo di un vaporetto. Agli agenti di guardia fu spiegato, in bella maniera di cui l’Utimperghe era maestro, che la presa di possesso avveniva in nome e per conto del nuovo Governo fascista repubblicano, che Mussolini, dopo la sua liberazione, aveva dichiarato di voler costituire. Di fatto quel Governo ancora non esisteva, ma tutto andò bene lo stesso anche per l’intelligenza del Prefetto in carica, che, capita la situazione in cui si veniva a trovare, cedette subito i poteri al nuovo venuto e fu trattato con tutti i riguardi. Quella notte Carlo, che faceva parte della spedizione, dormì, per la prima volta nella sua vita, sul nudo pavimento. Ma che pavimento era quello! Un pavimento nobile, a quadroni bianchi e rossi, lucidi come specchi, in una sala le cui splendide finestre davano sul Canal Grande. L’intero corpo di guardia passò con i neo-repubblicani e quello fu uno dei primi reparti di polizia della futura Repubblica Sociale. Ne aveva del fegato quell’Utimperghe!

Tornati dall’impresa di Venezia, i due fratelli capirono che il tempo di fare gli squadristi era finito e andarono ad arruolarsi nella Milizia.

Fecero uno strano incontro già nella caserma di via Gambini. Un ragazzo di cui sarebbero diventati amici, grandi amici, ma che al momento gli sembrò calato da un altro pianeta. Veramente erano tutti venuti da un altro mondo, ma quello era proprio fuori dalla norma. Era grande, grosso, un vero Ercole. Addosso aveva dei vestiti di un paio di taglie in meno. E così per le scarpe che, di necessità, erano state aperte per permettere alle dita di uscire. Una cosa mai vista. La testa era rapata a zero ed era possente. Aveva fatto il lottatore.

Che tipo, quel Nino Tommasini! Diplomato prima all’Istituto magistrale e poi al Liceo classico, era, anche se di primo acchito non lo sembrava affatto, un fior di gentiluomo. Un ragazzo dal cuore d’oro, che si era presentato ad arruolarsi in quello stato per la comodità di potersi liberare di quei suoi vestiti smessi da ragazzino, dopo che gli sarebbe stata consegnata la divisa. Niente male come idea, ma chi avrebbe osato circolare per città in quell’abbigliamento da mendicante o da pazzo completo. Appena l’ebbero conosciuto meglio, lo battezzarono il “gigante buono”, nome che in seguito si meritò da parte di tutti. Appena c’era aria di rissa - e questo poteva capitare anche per il più futile dei motivi, data la tensione che si respirava nell’aria – il gigante buono si frapponeva fra i litiganti e bastava questo per riportarli a più miti consigli. Altrimenti sapeva anche ricorrere alle maniere forti e allora faceva letteralmente volare quello o quelli che non volevano sentire ragioni. Il buon Nino, nel dopoguerra metterà su famiglia e si costruirà, quasi da solo, una casa sulla strada che porta ad Opicina. E qui, davanti alla sua casa, la morte lo ghermirà, travolto da un’automobile mentre portava a spalla ancora un altro palo per la casetta di giochi che, instancabile, stava edificando nel suo giardino.

Di tedeschi, in quegli ultimi giorni di settembre, se ne vedevano pochi in giro per le strade di Trieste. Stavano preparando l’attacco che avrebbe liberato l’Istria dalle bande di Tito. La gente di quella nobile terra viveva nel terrore. Le bande avevano occupato senza colpo ferire tutto l’hinterland, dopo lo squagliamento dei reparti italiani. Esistevano solo alcuni piccoli centri di resistenza costituiti da semplici cittadini che avevano imbracciato le armi abbandonate dai nostri soldati. Gli slavi avevano proclamato l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia con capitale Pisino al posto di Pola che non era in loro possesso. Stavano già cambiando le targhe automobilistiche e, quello che era peggio, avevano instaurato tribunali del popolo che mandavano a morte i patrioti italiani. La morte era quasi sempre per infoibamento, triste parola di nuovo conio, che diverrà purtroppo di largo uso nel maggio del 1945.

Urgeva liberare l’Istria, ogni giorno che passava erano altri italiani che morivano.

Ai primi d’ottobre, l’attacco tedesco partì e in un paio di giorni l’Istria fu libera. In ogni paese la Milizia insediava il suo presidio costituito per lo più da volontari del posto. Ovunque l’aiuto della popolazione era stato determinante.

Ai ragazzi che stavano affluendo, come volontari, alla caserma di Trieste, venne affidato il compito di scortare gli autocarri che rifornivano di viveri e munizioni i presìdi. I partigiani che si erano sbandati al primo urto, ora adottavano le tecniche della guerriglia, assalti ad automezzi isolati, minamento di strade, di linee ferroviarie, incursioni in località non presidiate con deportazione di giovani in grado di combattere e così via.

In Carso la situazione era completamente diversa. Intere zone, dove la popolazione era tutta di lingua slovena, erano occupate dagli slavi di Tito che costituivano il cosiddetto IX Corpus. Fra essi anche degli italiani, in buona parte ex-militari che avevano fatto causa comune con quelli.

Anche qui la Milizia aveva costituito dei presidi, ma questi vivevano in istato di assedio permanente e rifornirli era sempre un rischio mortale. Era il caso di Comeno e di Rifembergo.

L’ufficiale che comandava il reparto dei giovani, il tenente Romano, aveva scelto come furiere Carlo, che gli pareva il più adatto per le questioni amministrative, ma a Carlo questo lavoro non garbava, gli pareva di fare l’”imboscato”, voleva partecipare anche lui alla guerra. Così chiese ed ottenne di andare a rifornire il presidio di Rifembergo.

Viaggiavano su due camioncini SPA, veloci e scattanti, guai se no. La scorta di due uomini per camion, stava allo scoperto, sul pianale, con le armi in pugno. Arrivarono all’improvviso a destinazione. Fecero la minima sosta per scaricare i mezzi e per salutare i militi del presidio. Tutto attorno alla caserma erano schegge di mortaio, tracce di scoppi di bombe a mano, bossoli di fucile e di mitragliatrice. La notte si scatenava l’inferno.

Ripartirono in gran fretta per non dare il tempo ai nemici di organizzare un agguato. Stavano risalendo la strada tutta tornanti che porta verso Comeno, quando nel bosco che la costeggia Carlo scorse un bivacco di partigiani, ch’erano intenti ad accendere un fuoco. Carlo non aveva mai visto il nemico in faccia e non gli pareva vero che fosse finalmente giunto il momento di affrontarlo. Sulle due macchine erano in tutto, con gli autisti, in sei con sei semplici fucili 91 della prima guerra mondiale. Per i partigiani sarebbe stato un invito a nozze, per i sei militi la morte sicura. Battendo sul vetro che lo separava dal conducente, Carlo cercava di fargli capire che bisognava fermarsi, scendere ed attaccare. Per tutta risposta l’autista accelerò e la macchina fece un balzo in avanti, aiutata in ciò da qualche santo del Paradiso, che certo qualcuno aveva invocato.

Quando, dopo vari tentativi andati a vuoto, mesi dopo, venne organizzata una colonna per andare a liberare quell’eroico presidio, fu un autentico massacro. L’intera Trieste accompagnò i funerali di quei valorosi militi. Erano più di cinquanta i caduti con alla testa il capitano Antonio Costantini. Li trovarono bruciati sui loro camion, perché i partigiani non avevano pietà neppure per i morti. Solo con l’impiego di forze dieci volte superiori fu in seguito possibile raggiungere lo scopo. Quelle partigiane non erano bande isolate ma un intero esercito installatosi sul Carso, da quello triestino alla Selva di Tarnova. Contenere la spinta verso sud di questo esercito era un’impresa non da poco. Vi si votarono con abnegazione ed eroismo i più bei reparti repubblicani, dalla Milizia, ai Bersaglieri, alla X° Mas, agli alpini del Reggimento “Tagliamento”.

Ma presto anche per i giovani volontari della caserma di Trieste quella vita di rischio quotidiano tra una scorta e l’altra, finì. Ci si erano ormai abituati, il minestrone a pranzo e a cena, la pagnotta di segala tedesca, fresca di qualche mese, il miele sintetico e la margarina, che prima non avevano neppure sentito nominare. E le chiacchierate con soldati della Wehrmacht, per lo più anziani riservisti, convinti oramai della ineluttabile sconfitta, ma altrettanto decisi a fare fino in fondo il loro dovere.

Questo era stato il primo approccio alla vita di caserma, ma ora il reparto si era ingrossato e occorreva provvedere all’addestramento di quei ragazzi. Erano ormai più di cento e vennero avviati a Padova, alla caserma di Borgo Chiesanuova, sulla statale che porta a Vicenza. Con l’afflusso dei volontari di Fiume, Pola, Gorizia e della Compagnia universitaria “Vukasina” che veniva dalla Dalmazia, si formò il “2° Battaglione M d’assalto Venezia Giulia” che fu posto agli ordini del Maggiore Giuseppe Porcù, un sardo che proveniva dalla Legione di Fiume. I due fratelli triestini vennero assegnati al Plotone comando con il bravo sergente Renato Tornani, ragazzo esperto e di poche parole, ch’era militare di carriera, triestino pure lui.

Un grave lutto funestò molto presto la tranquilla vita dei legionari, così ora venivano chiamati, che si addestravano quotidianamente lungo gli argini, i viottoli, i campi del padovano. Il sottotenente Tullio Cividino, venne assassinato a Trieste, dove si era recato in licenza. Erano le prime avvisaglie della guerra civile che in quelle zone veniva condotta dall’O.F., l’organizzazione terroristica di Tito.

Ai primi dell’anno le donne fasciste di Trieste vollero consegnare la bandiera di combattimento al Battaglione e fu una cerimonia molto toccante.

Una lieta sorpresa venne con l’arrivo di un bravo trombettiere. Da allora ogni movimento in caserma avveniva al suono della sua cornetta e tutti avevano presto imparato a riconoscere i vari segnali attraverso le parole che, tradizionalmente, li accompagnavano. Parole inventate da chissà quale bello spirito e in chissà quale periodo della storia dell’esercito. Sta di fatto che, senza quelle parole, soltanto pochi avrebbero riconosciuto e distinto quei segnali che si assomigliavano un po’ tutti. «La pappa l’è cott, la pappa l’è cott,…» era certamente il più gradito, ma uno superava tutti gli altri per la sua bellezza che lo ha reso immortale.

Nella notte, ma soltanto nei giorni di festa, il trombettiere si esibiva - è questo il termine giusto - nel “Silenzio fuori ordinanza”. Una musica che trasporta in alto e che, specie quando si è lontani dai propri affetti, crea sentimenti indicibili. Non per altro è attribuita a Giacomo Puccini.

Le parole recitano così: «Brutta cappella va in branda a riposar, a riposar,…mentre l’anziano va fuori a divertir, a divertir …» Erano quasi tutti delle “brutte cappelle”, erano soldatini di primo pelo, quindi avrebbero dovuto ritirarsi molto presto alla sera, perché, secondo l’ignoto autore di quei versi, solo agli “anziani” spettava il diritto di divertirsi. Non si sa come.

Riposar e divertir, parole sconosciute in quel terribile anno 1944. E il peggio doveva ancora venire.

(La testimonianza è stata pubblicata in "Un milione e 1" di Claudio De Ferra nel 2001)

 

Ultimo aggiornamento ( martedì 05 novembre 2013 )
 
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