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Garibaldi, l’eroe manipolato della Repubblica di Salò PDF Stampa E-mail
Scritto da Redazione   
mercoledì 07 ottobre 2009

Roberto Chiarini, Garibaldi, l’eroe manipolato della Repubblica di Salò. Già celebrato dal regime fascista, il grande condottiero divenne l’emblema della svolta consumata da Mussolini, in «Giornale di Brescia», 1 ottobre 2009, p. 37.

 

 

 

Garibaldi per i più, soprattutto per i giovani, è ormai solo il nome di una piazza, di una via o di un monumento. Eppure fino alla fine - e oltre - della seconda guerra mondiale è stata un’icona popolarissima, non solo in Italia ma in molti paesi sia d’Europa che d’America. Popolare lo era divenuto già nell’Ottocento quando ancora era in vita. La sua fama, presto ascesa a mito, si deve insieme all’eccezionalità delle sue imprese e alla narrazione che di lui venne subito offerta sia dai suoi compagni d’armi sia presto dai nostri governanti sia da lui stesso. Garibaldi costituisce, insomma, forse la prima vera star della nostra storia nazionale: conosciuto, amato e idolatrato alla pari dei nostri odierni calciatori o divi del cinema.

La sua fama fu tanto larga e condivisa da venire contesa per quasi un secolo dagli opposti schieramenti: dai monarchici e dai repubblicani in età liberale, dai fascisti e dagli antifascisti nel Ventennio. Garibaldi riuscì a compiere il miracolo di infiammare - unico nella nostra storia nazionale - insieme rivoluzionari e conservatori, internazionalisti e nazionalisti, difensori dell’ordine costituito e suoi eversori.

Al tempo del fascismo riuscì a confermarsi icona propagandistica imbattibile non solo per entrambi gli schieramenti in lotta tra loro ma persino per entrambe le versioni del mussolinismo: la monarchica del ventennio e la repubblicana dei seicento giorni di Salò.
Già al tempo del regime il Generale era entrato tanto nel cerimoniale ufficiale, celebrato come anello di congiunzione tra Risorgimento e fascismo, quanto nell’immaginario degli scontenti della normalizzazione monarchica della «Rivoluzione fascista» come figura di ribelle coerente con i suoi ideali e insofferente nei confronti dei compromessi imposti dai «cortigiani» di Casa Savoia. Ma è con la nascita della Repubblica sociale italiana che Garibaldi si sveste completamente dei paludamenti dell’ufficialità monarchica per divenire l’emblema stesso della svolta repubblicana consumata da Mussolini. Da leale suddito dei Savoia diviene fiero sostenitore della repubblica, da condottiero votato alla vittoria passa a combattente in difesa di una causa persa, da dittatore sostenuto dal popolo intero si trasforma in indomito condottiero di una minoranza eroica.

La Repubblica rappresenta una rottura istituzionale senza precedenti e, se precedenti ha (Repubblica Romana e Repubblica di Venezia al tempo della prima guerra d’indipendenza) si tratta di esperienze traumatiche che rinviano a un immaginario, emotivo prima ancora che istituzionale, proprio di una minoranza rivoluzionaria destinata alla sconfitta. Si capisce allora come la Rsi abbia una fame disperata di richiami storici che servano a dotarla di un minimo, se non di legittimità, almeno di nobili ascendenze. Garibaldi, insieme a Mazzini - ma forse più di lui per la popolarità della sua icona - sembra fatto apposta per essere utilizzato dalla macchina propagandistica del fascismo repubblicano sorto sulle sponde del lago di Garda.

Oltre allo scontato richiamo alla sua militanza repubblicana e alla sua generosa difesa degli umili e degli oppressi, del Generale si cerca di avvalorare una presunta analogia di ruolo e di destino col duce. Entrambi, appunto, repubblicani che si adattano a sostenere la monarchia per amor di patria, ma solo per quello, tanto è vero che il primo non smette mai di coltivare (anche se in modo discreto) la sua originaria fede e il secondo risfodera il credo della gioventù non appena si libera (dopo «il tradimento dell’8 settembre» del ’43) dall’impaccio della Corona. Li lega inoltre - questa la manipolazione propagandistica offerta dalla Rsi - l’essere entrambi la personificazione del condottiero, del dittatore, dell’accanito difensore dell’unità e dell’indipendenza della Nazione nonché strenui avversari del liberalismo e convinti fautori dell’elevamento delle classi popolari. In un volantino distribuito in quei giorni Garibaldi e Mussolini fanno bella mostra di sé (insieme ai soli Mazzini e Crispi) nella ristretta galleria dei Grandi che hanno meritato per la Nazione.

L’aspetto che del Generale viene valorizzato al più alto grado è l’esser stato - sempre e sopra ogni cosa - un combattente che si spende generosamente per una causa giudicata nobile, sopra ogni calcolo prudenziale e oltre ogni considerazione opportunistica. Come è il caso - non per libera scelta ma per necessità - della Repubblica di Salò, condannata a lottare, purtroppo non per la vittoria, ma solo «per l’Onore» e «per il Dovere». Non conta il risultato, non conta che «le donne (e anche gli uomini) non ci vogliono più bene», non conta che le forze avversarie siano esorbitanti e sulla testa degli italiani piovano sempre più bombe. Conta la determinazione a non arrendersi. «Dalla tomba di Caprera - recita un altro manifestino salodino - scoperchiata dalle bombe nemiche, si leva l’Eroe dei due mondi per indicarci la via del dovere: O ROMA O MORTE». Purtroppo per gli italiani la morte fu allora fin troppo di casa, sia subita che procurata. Per fortuna nostra i militi di Salò persero Roma.

 
Ultimo aggiornamento ( mercoledì 07 ottobre 2009 )
 
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