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Storia: immaginazione al potere PDF Stampa E-mail
Scritto da Redazione   
sabato 01 marzo 2008

Alain Finkielkraut, Storia: immaginazione al potere. Francois Furet e Jacques Le Goff: chi è grande ricrea il passato, in «Corriere della Sera», 17 gennaio 2008, p. 45.

 

 

Giovedì 29 dicembre 1842, Jules Michelet incomincia­va in questi termini il suo corso al Collège de France: «Devo ringraziare le persone compia­centi che raccolgono le mie lezioni, ma nel contempo devo pregarle di non dare a questo alcuna pubblicità. Parlo con fiducia a voi, a voi soli, e non alla gente di fuori. Non vi confido solamente la mia scienza, ma il mio pensiero intimo sul tema più vitale. Appunto perché è molto numeroso, molto completo (per età, sesso, pro­vince, nazioni...), in questo uditorio sento l'umanità, l'uomo, cioè me stes­so. Da me a voi, da uomo a uomo, tut­to può dirsi. Sembra che uno solo par­li, qui: errore, anche voi parlate. Io agisco e voi reagite, io insegno e voi m'in­segnate.

 

Le vostre obiezioni, le vostre approvazioni sono per me molto sen­sibili (...). L'insegnamento non è, co­me si crede, un discorso accademico o un'esibizione; è la comunicazione vi­cendevole, doppiamente feconda tra un uomo e un'assemblea che cercano insieme. La stenografia più completa, più esatta, riprodurrà il dialogo? No, riprodurrà solamente ciò che ho detto e non anche ciò che ho detto: io parlo anche con lo sguardo e con il gesto. La mia presenza e la mia persona sono una parte considerevole del mio insegnamento. La migliore stenografia parrà ridicola perché riprodurrà le lun­gaggini, le ripetizioni utilissime qui, le risposte che do sovente alle obiezio­ni che vedo nei vostri occhi, gli ampliamenti che do su un punto, in cui l'approvazione di tale o talaltra perso­na mi indica che vorrebbe fermarmi. Occorre quindi lasciar volare queste parole alate. Che si perdano, alla buo­n'ora! che si cancellino dalla vostra memoria, se ne resta lo spirito, va be­ne. Sta qui ciò che di toccante e di sa­cro c'è nell'insegnamento. Che sia un sacrificio, che non ne resti niente di materiale, ma che tutti ne escano for­ti, abbastanza forti per dimenticare questo debole punto di partenza. Quanto a me, se temessi che le mie pa­role rischiassero di gelare nell'aria e di essere riprodotte così, isolate da co­lui per il quale avete una qualche be­nevolenza, non oserei più parlare. Vi insegnerei qualche tavola cronologi­ca, qualche secca e triviale formula, ma mi guarderai dall'apportare qui, come faccio, me stesso, la mia vita, il mio pensiero più intimo».

Occorre tuttavia rendere grazie agli editori di per non averlo ascoltato e a Viallaneix per avere pubblicato da Gallimard l'integralità dei suoi corsi al Collège de France (...). Ogni professore riconoscerà la sua esperienza nella descrizione fatta da Michelet della relazione pedagogi­ca, ma ogni professore dovrà nel con­tempo misuraci l'insormontabile di­stanza che lo impara da Michelet: sia all'orale sia allo scritto. Michelet è poe­ta e, anche se è praticata con stile, la ricerca della verità ha rotto con la poe­sia. Come dire che, per i poeti contempora­nei, Michelet non è più una fonte d'ispirazione o un pensiero viro, ma un monumento letterario e un ogget­to di storia.

Francois Furet e Jacques Le Goff, voi avete entrambi contribuito a rinnovare la disciplina storica. Quanto leggete, di pugno di Michelet, che la «condizione imposta alla Storia non è più di raccontare solamente o di giudicare, ma di evocare, di rifare, di risuscitare le età» e che «il dovere dello storico è di dare assistenza ai morti troppo dimenticati», è ancora o è già della vostra pratica che parla?

Francois Furet Michelet resta per noi, storici della Rivoluzione, un esempio ineguagliato: è il più grande storico della Rivoluzione che ci sia sta­to. È vero che non lavorava come lavo­riamo noi: ha letto molti più stampati e archivi di quanto non si dica general­mente ma, come le persone dell'Otto­cento, cita poco le sue fonti (o, se lo fa, lo fa in modo intermittente e ineguale). Di straordinario e che potrebbe apparire lontano da noi, senza in verità esserlo in alcun modo, ha so­prattutto che tiene conto del lavoro dell'immaginazione. La storia è una di­sciplina in cui c'è il 50% di fatti e il 50% di immaginazione, anche quando si la­vora su dati che sono numerosi come nel caso della storia moderna e con­temporanea.

Finkielkraut Lei direbbe quindi che questa proporzione vale anche per gli storici di oggi?

Furet Assolutamente! Si riconosco­no i grandi storici dal lavoro dell'eru­dizione, da un lato, e dal lavoro dell’immaginazione e dell'intuizione, dall'altro. A questo riguardo, la storia non sarà mai una scienza sociale come un'altra, perché è un lavoro, se non di risuscitazione, in ogni caso di risurrezione del passato. E la risurre­zione del passato è il lavoro dell'imma­ginazione. I grandi libri di storia trag­gono il loro valore e il loro mistero dal fatto che sono più veri e fanno più ap­pello degli altri all'immaginazione.

Jacques Le Goff Sono pienamen­te d'accordo con Francois Furet. Ho coscienza della distanza, come Lei diceva, che c'è tra il mio lavoro di stori­co e Michelet, che si può ben definire un «genio». Detto questo, voglio so­prattutto insistere sui modi in cui mi sento prossimo a Michelet. Devo a questo Corso, che non conoscevo, di aver scoperto un Michelet più prossimo alla mia pratica di quanto non pensassi dalla lettura delle sue grandi opere. In effetti, questo Corso ci fa vedere l’immaginazione all'opera su alcuni documenti. Credo che, per quanto concerne le pratiche e la concezione della Storia, occorra ridurre la distanza che si mette troppo volentieri tra Michelet e noi: occorre ridire, come ha appena fatto Francois Furet, che Michelet, per la sua epoca, era un eru­dito. Egli amava gli archivi e prendeva già come documenti ciò che noi stia­mo scoprendo, ossia le opere lettera­rie e le opere d'arte. Non dimentichia­mo d'altronde che l'urto da cui faceva dipendere la sua vocazione storica era stata la visita al recinto degli agostiniani, dove Alexandre Lenoir aveva riuni­to alcune sculture. Riprendo quindi a mia volta la formula di Frangoìs Furet: nella storia c'è il 50% di erudizione e il 50% di immaginazione. Ritengo l'immaginazione veramente necessaria al­lo storico. La storia che cerchiamo di fare oggi, molto differente e nel con­tempo molto vicina, ha ritrovato que­sto tipo di ispirazione. La modernità di Michelet mi è molto fortemente ap­parsa in questo testo.

Alla fine, Furet ha fatto allusione a una formula che ci seduceva e nel con­tempo ci infastidiva; quando eravamo apprendisti storici, ammiratori già di Michelet: è la formula in cui si tratta della «risurrezione integrale del passa­to». Non ci sembrava possibile darlo come obiettivo alla Storia, perché ci sembrava per così dire antistorico vo­lere far rivivere tale e quale Spassato. Occorre che il passato riviva attraver­so la differenza. Ma, qui, ho visto ciò che da a questa formula ancora la sua piena efficacia per noi: Michelet ha piena coscienza di parlare dei morti. «Amare i morti è la mia immortalità», scrive per esempio. Ci mostra come ci sia un trattamento dei morti che resta ancora oggi un obiettivo per gli stori­ci. Osservo infine che, nella formula della «risurrezione integrale del passa­to», «integrale» è un termine importantissimo: Michelet appare in questo Corso, più che nelle altre sue opere, come se avesse veramente compiuto quello che era stato attribuito ai fonda­tori della rivista «Les Annales» ma che questi non erano mai veramente riusciti a definire né a realizzare esattamente, ossia la storia totale o globa­le. Michelet lo ha fatto, e si potrebbe anche mostrare come questa passio­ne storica debordi sul mondo della na­tura...

Finkielkraut Restiamo per un istante ai morti: «Avevo una bella ma­lattia che incupì la mia giovinezza ma molto appropriata allo storico. Amavo la morte. Avevo vissuto nove anni alle porte del Père-Lachaise, allora mia unica passeggiata. Poi, abitai verso la Bièvre, in mezzo a grandi giardini con­ventuali, altri sepolcri. Conducevo una vita che il mondo avrebbe potuto dire interrata, senza altra società che quella del passato e per amici i popoli sepolti. Rifacendo la loro leggenda, ri­svegliavo in loro mille cose svanite». Viene, un po' più avanti, questa confidenza straordinaria: «Il dono, che san Luigi chiede e non ottiene, io lo ebbi: il dono delle lacrime». Michelet oppo­ne il dono delle lacrime come qualità dello storico all'obiettività di Spinoza secondo cui non bisogna «né ridere né piangere ma capire». Lei, da quale lato si situa?

Furet (...) Michelet fa uno straordi­nario lavoro di ascesi per scendere nel mondo dei morti. Ciò corrisponde pe­raltro nella sua vita personale a una profonda depressione. Poi, all'improv­viso, nel mezzo dei suoi Corsi al Collège de France (ossia anche nel mezzo della sua opera), allorché deve affron­tare il Rinascimento dopo tre o quat­tro anni di corsi sul Medioevo, decide di installarsi nel mondo della Rivolu­zione francese. (...) A partire dal 1842 o dal 1843 quindi, Michelet si lancia in corsi profetici sulla storia di Francia; si vede così apparire un Michelet per cui la storia è il presente: ha smesso di essere una discesa nel mondo dei morti, per diventare un dialogo con le persone cui si sente appoggiato. (...)

Le Goff Lei, Finkielkraut, citava le parole sulle lacrime di san Luigi, e quello è un esempio del grandissimo talento di Michelet. Sono sempre sta­to colpito dalla prodigiosa intuizione di Michelet (...). In questo testo, sa mettere il dito sul dettaglio significati­vo, che è il seguente: san Luigi confes­sa al proprio confessore che il suo più grande motivo di tristezza è di non avere il dono delle lacrime che, per un cristiano del Medioevo, è necessario nel processo di penitenza. Michelet ha colto che ciò esprime qualcosa di essenziale e di profondo, sia nel cri­stianesimo medievale sia in san Luigi.
Ultimo aggiornamento ( sabato 01 marzo 2008 )
 
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