Scritto da Redazione
|
domenica 21 ottobre 2007 |
Piero Craveri, Novecento controverso L’ostinazione dei vinti Giampaolo Pansa torna con un quarto libro sulla guerra civile strisciante dopo il 1945: «I gendarmi della memoria» hanno perso l’egemonia, ma c’è chi continua a negare, in «Il Sole-24 Ore», 21 ottobre 2007, p. 37. Giampaolo Pansa con questi Gendarmi della memoria è al suo quarto libro consecutivo sul tema della guerra civile italiana che accompagnò e seguì la Resistenza al nazifascismo. Anche in questo sono raccolte una serie di cronache di violenza di quegli anni. Tra le vittime non ci sono solo fascisti, molti sono apolitici, di solito borghesi benestanti, altri numerosi sono partigiani e militanti politici non comunisti. Pansa ne ricostruisce le biografie e gli avvenimenti che portarono alla loro morte o scomparsa. Sono cronache, dietro a cui c'è una documentazione non controvertibile e che nemmeno le polemiche a cui hanno dato luogo hanno messo in dubbio. Sono materiali di una storia che solo in parte è stata scritta e rispetto a cui Pansa sembra volersi limitare a fornire appunto l'evidenza, perché non venga più negata. Egli si pone così due interrogativi: perché non sono stati fino a oggi presi più che tanto in considerazione e perché anche oggi c'è chi vuole negarne o minimizzarne l'esistenza? L'ultimo interrogativo è poi il filo conduttore di questo libro. I Gendarmi della memoria sono quelli che ostacolano il necessario processo di conoscenza, in particolare non sono soltanto i critici di Pansa, ma i suoi, spesso minacciosi, persecutori. Per dare una risposta a questi interrogativi e conferire un valore alle cronache stesse di Pansa, non si può a questo punto che incominciare a fornire delle interpretazioni storiche. In questo libro ad esempio si mette in evidenza il giudizio di uno storico, Giovanni De Luna, che dichiarò, tempo fa, che la storiografia revisionistica aveva ormai vinto, facendo prevalere la tesi che la Resistenza non fosse più il dato fondante della Repubblica. Forse ci sono libri di ispirazione neofascista, neoborbonica, neomonarchica che hanno sostenuto tesi del genere, ma non hanno carattere storiografico. È esatto invece dire che c'è un'interpretazione storiografica a carattere politico ideologico, riproposta da De Luna e già tradizionalmente propria dei comunisti e di una parte dell'antifascismo militante, che in questi anni ha perso la sua egemonia interpretativa a seguito delle evidenze della storia. Premessa non controversa è costituita dal carattere unitario della Resistenza nelle sue finalità democratiche e patriottiche, sia a livello militare, sia politico. La conduzione della lotta di Liberazione, la linea politica del Clnai e del governo di Roma lo confermano, pur essendo diverse invece le motivazioni e anche in molti casi i comportamenti delle forze della Resistenza. Il dissenso interpretativo riguarda quando queste divergenze incominciarono a prendere il sopravvento dopo il 25 aprile. Dalla Liberazione all'aprile 1948 l'Italia si trovò infatti sull'orlo di una seconda guerra civile, che avrebbe trovato poi le sue esplicite motivazioni nella "guerra fredda". La situazione internazionale e la strategia che Stalin avrebbe adottato verso l'Europa Occidentale ne furono infatti le discriminanti. Ma appunto perciò il Pci si era preparato anche a un'ipotesi di sfondamento sovietico. C'è oggi una documentazione inconfutabile su questo punto. Anche in queste cronache di Pansa non è un caso che, soprattutto nel "triangolo della morte", tutti i tentativi che vennero fatti dall'interno stesso del Pci per normalizzare la situazione si siano arenati davanti al no di Secchia, responsabile dell'allora potente apparato militare del Pci. La "doppiezza" del Pci in quegli anni non era solo di natura ideologica, ma consisteva in due diverse strategie di conquista del potere, la cui scelta dipendeva principalmente da Mosca. E se prevalse la linea di Togliatti, il partito avrebbe comunque compiuto la scelta opposta, qualora gli fosse stata imposta. Il giudizio su quegli anni non può essere così più quello di una marcia solidale verso la democrazia, ma di un confronto decisivo, a cui solo l'esito delle elezioni del 18 aprile 1948 diede una risposta definitiva. Anche le "cronache" di Pansa trovano in ciò una precisa collocazione, mentre i suoi "guardiani della memoria" sono armati, più di quanto egli stesso reputi, dalla sola "ostinazione dei vinti". Vinti definitivamente dal crollo dell'Urss, ultimo pilastro di quella interpretazione politico ideologica della Resistenza e della fondazione della Repubblica che fu principalmente dei comunisti.  La Liberazione. Fascisti catturati dai partigiani a Milano il 25 aprile 1945 (Il Sole-24 Ore, 21 ottobre 2007, p. 37) |
Ultimo aggiornamento ( lunedì 22 ottobre 2007 )
|
|
Scritto da Redazione
|
giovedì 18 ottobre 2007 |
Recensione del volume «Vivere al tempo della Repubblica sociale italiana», curato da Roberto Chiarini e Marco Cuzzi, La Compagnia della Stampa, Roccafranca (Brescia) 2007, in «Il foglio quotidiano», 17 ottobre 2007, p. 3. Ci fu un tempo in cui l’imperativo categorico era credere, obbedire e combattere. E un tempo in cui, più prosaicamente, era sopravvivere. Fu il tempo della Repubblica sociale italiana, quando gli italiani si ritrovarono la guerra in casa e per 600 giorni – dal settembre 1943 all’aprile 1945 – dovettero fare i conti con razionamenti, privazioni, bombardamenti, sacrifici. I partigiani che si rifugiarono in montagna, i ragazzi di Salò che pattugliavano le città, i civili in mezzo: tutti a dare il meglio nell’arte dell’arrangiarsi. Due storici, Roberto Chiarini e Marco Cuzzi, lasciando da parte le vicende politiche e le motivazioni ideologiche che spinsero gli italiani a scegliere una parte piuttosto che l’altra (o a rimanere in mezzo), si concentrano sugli aspetti più minuti della vita quotidiana, sfruttando una quantità di materiale inedito, tra foto, manifesti, stampe, documenti originali e interviste ai reduci. E raccontano un’esistenza “al limite”, a partire dagli orari: il coprifuoco dichiarato nelle grandi città è così rigido – dalle venti alle sei del mattino – che la Messa di mezzanotte del Natale 1943 viene celebrata alle quattro di pomeriggio. E poi la scarsità di cibo e beni di prima necessità: dal pane, sostituito dal “mischio”, un’orrenda mistura di farina di lenticchie, cicerchie e orzo, al caffé (ci si arrangia con la “ciofeca” di orzo e cicoria); dalla verdura (persino aiuole e piazze sono trasformate in orti di guerra) alla schiuma da barba, diventata così rara che la ditta Ducati lancia il rasoio elettrico (anche se ben pochi potranno permetterselo). Via le tomaie delle scarpe, sostituite da spago intrecciato. Via le suole Vibram, al cui posto si riciclano copertoni delle auto. E via gli stessi abiti confezionati (roba da ricchi): al loro posto pantaloni e gonne cucite in casa, stracci e persino pelli di coniglio per l’inverno, quando i giornali consigliano, in mancanza di scaldaletti elettrici, di mettere sotto le lenzuola un barattolo di calce viva. Sistema economico, ma pericolosissimo: le ustioni non si contano. Anche i vizi sono razionati: il tabacco, se c’è, è di pessima qualità e le sigarette – al di là dell’elegante pubblicità delle “Macedonia” – un lusso per pochissimi. Agli italiani, per svagarsi, non resta che la radio (le trasmissioni dell’Eiar che si concludono immancabilmente con la “preghiera della Repubblica sociale” oppure la clandestina Radio Londra) o la rivista, almeno nelle grandi città: a Milano Calindri e Gassman recitano in commedie leggere fino al giorno della Liberazione. |
Ultimo aggiornamento ( venerdì 19 ottobre 2007 )
|
|
Scritto da Redazione
|
domenica 14 ottobre 2007 |
Raffaele Liucci, Tutti a casa. A fare che?, in «Il Sole24Ore», 19 agosto 2007, p. 32. «Ogni tanto gli scappava detto qualcosa di quello che gli era capitato nei lunghi anni di "naja": un episodio, un incontro, un pericolo a cui era fortunosamente scampato. Tutti insorgevano. La nonna e il nonno, i fratelli, i cognati, i parenti, il mondo. "Tu e la tua guerra gridavano. Se n'ha abbastanza, noialtri, di queste storie di guerra!"». Così Sebastiano Vassalli fotograferà, nel romanzo L'oro del mondo, la freddezza, il fastidio e persino il rancore che accolsero i reduci italiani dal secondo conflitto mondiale. Tornavano a casa dopo anni, trascorsi nei cinque continenti, sul fronte russo, nel pantano greco, fra le dune del Sahara, all'ombra delle torrette di qualche campo di concentramento tedesco o inglese o americano. S'aspettavano un'accoglienza calorosa. Ma questi soldati sfiniti, abbruttiti, mutilati erano l'effigie d'una guerra maledetta, che non aveva risparmiato il suolo della patria. Disconoscere i loro sacrifici significava anche esorcizzare una disavventura salutata, cinque anni prima, dalle ovazioni delle piazze oceaniche. D'altra parte, gli italiani sono sempre stati grandi maestri nell'arte dell'oblio. La sconfitta trasformata in "armistizio". L'occupazione militare edulcorata in “alleanza”. I quaranta milioni di fascisti diventati quaranta milioni di antifascisti dopo Piazzale Loreto. E così nell’Italia liberata, gli unici responsabili della guerra sembravano essere i suoi disorientati reduci in grigioverde: «Non capivo più nulla, solo che mi dovevo vergognare ancora una volta», scriveva uno di loro, Oreste Del Buono, autore di amarissime schegge autobiografiche sul difficile ritorno in un Paese diverso da quello lasciato. Dopodichè, il capitolo sarà archiviato, espunto dalla memoria collettiva e trascurato persino dalla storiografia. Eppure, il rientro dei reduci aveva rimescolato in profondità la società. Durante la guerra furono mobilitati quasi cinque milioni di uomini, dei quali un milione e trecentomila finirono prigionieri, in mani tedesche o alleate. Il rimpatrio di queste ingenti masse innescherà attriti, conflitti e proteste, tanto che molti, non riuscendo a trovare un lavoro, dopo esserselo conteso con braccianti e operai, saranno costretti a emigrare. Come mai, allora, questa rimozione? Perché non c’è nulla di gratificante nel rievocare le traversie di una guerra perduta. Ma anche perché i reduci rappresentavano un universo troppo frammentato, incapace di produrre un collante identitario. I prigionieri “non cooperatori” del campo di Hereford (Texas), per lo più fascisti fino alla fine. Gli internati in Germania, che avevano rifiutato di prestare giuramento alla Rsi in cambio di un trattamento più umano. I combattenti di Salò. I soldati del Corpo italiano di liberazione. I militari riparati in Svizzera. Difficile trovare un trait d’union. Sullo sfondo, il controllo politico e clientelare che i partiti cercheranno di assicurarsi sulle varie associazioni, onde evitare la sindrome del primo dopoguerra, quando il combattentismo, lasciato a briglia sciolta, era in buona parte confluito nel fascio di Mussolini. Tutti temi affrontati in un recente volume di Agostino Bistarelli, il primo studio d’insieme sull’argomento. L’autore ha pregevolmente attinto a una vasta messe di fonti memorialistiche e archivistiche. Purtroppo, una struttura turgida e uno stile sfocato inceppano la lettura. Si avverte la mancanza di un robusto editing. Del resto, «gi storici italiani scrivono mediamente male, ma non solo perché sono involuti, trasandati o prolissi: soprattutto perché non si pongono il problema della scrittura come elemento costitutivo della ricerca». Ha potuto permettersi di dirlo un autorevole membro della categoria, Silvio Lanaro, uno dei pochissimi a porsi coscientemente il problema. |
Ultimo aggiornamento ( domenica 14 ottobre 2007 )
|
|
Scritto da Redazione
|
venerdì 12 ottobre 2007 |
Claudio Pavone, Il ritorno dei reduci. Una moltitudine di vinti traditi dalla patria, in «Repubblica», 10 ottobre 2007, p. 42. Mancava un'opera complessiva sui reduci italiani dalla seconda guerra mondiale che affiancasse quella pubblicata da Giovanni Sabbatucci nel 1974 sui reduci dalla prima. La lacuna è ora colmata dal libro ricco e articolato di Agostino Bistarelli, La storia del ritorno. I reduci italiani del secondo dopo guerra (Bollati Boringhieri, pagg. 269 […]). Il libro parte dalla constatazione che, nonostante le sue imponenti dimensioni (centinaia di migliaia di persone), il fenomeno abbia trovato poco spazio nella storiografia e presenza molto limitata nella memoria collettiva, al contrario di quanto era avvenuto per i reduci dalla prima guerra. Chiarire questa disparità è la prima domanda che si pone l'autore, il quale non esaurisce però il suo lavoro in questo confronto, ma lo sviluppa in una ricerca a tutto tondo. Bistarelli parte da una attenta disamina del problema storiografico, facendo ampio ricorso anche al modo in cui la letteratura e il cinema rappresentarono fra i primi gli eventi legati alle esperienze della guerra e del ritorno. Continua poi collocando la figura del reduce nella società italiana del dopoguerra, delineando i tratti essenziali della sua multiforme identità, e ponendo infine in luce come la politica, lo Stato, il sindacato affrontarono i problemi che quella grande massa di uomini non facili da governare poneva loro in modo pressante. Più volte l'autore sottolinea il groviglio di sentimenti e di interessi, non agevolmente dipanabile, che agitava quelle inquiete coscienze e si riverberava nelle associazioni reducistiche. Innanzitutto alcuni dati di fatto. Grande era la varietà dei reduci, quale non si riscontra in nessun altro paese e quale non si era verificata nella prima guerra, combattuta tutta sul suolo italiano e contro lo stesso nemico. Ora invece i reduci avevano combattuto su fronti lontani e disparati: Francia, Nord Africa dalla Tunisia all'Egitto, Grecia, Jugoslavia, Russia; provenivano da prigionie disparate: Nord Africa francese, Egitto, India, Sud Africa, Stati Uniti, Russia, infine Germania. Esperienze così diverse non potevano non rispecchiarsi nel loro modo di essere reduci. Nello sfondo c'era la sconfitta senza gloria. Agli unici ex combattenti che potevano ascriversi fra i vincitori, i partigiani e i combattenti del Corpo italiano di liberazione inquadrato nel regio esercito del Regno del Sud l'autore dedica giustamente discorsi specifici, e così anche, all'estremo opposto, ai reduci della RSI, sconfitti due volte (come ebbe e definirli altra volta lo stesso Bistarelli). Anche alla situazione degli Imi (più di seicentomila militari internati in Germania dopo l'8 settembre) l'autore dedica una particolare attenzione: mai riconosciuti come prigionieri di guerra dai tedeschi, essi incontrarono una diffidenza, politicamente cieca e moralmente ignobile, da parte degli alti Comandi italiani. Si aggiunga infine che diversi erano stati i tempi del ritorno, iniziati già nella «Italia liberata prima della Liberazione» (il Regno del Sud), e diverso di conseguenza fu il primo incontro con la situazione trovata in patria. Era una patria che non seppe trovare gli atteggiamenti, e diremmo nemmeno le parole, atte ad afferrare la complessità di una tanto grande e tanto differenziata massa di uomini, percorsa da tensioni spesso contraddittorie. Alla spinta alla rimozione e al rapido oblio dal quale nasceva la indifferenza che tanto colpiva un personaggio divenuto un simbolo quale il reduce Gennaro in Napoli milionaria di Eduardo De Filippo, faceva riscontro anche nel nuovo ceto politico, nei confronti dei reduci, una vera e propria diffidenza, che potremmo paradossalmente chiamare una vittoria postuma del fascismo. Che gli ex combattenti fossero stati largamente presenti fra gli squadristi, soprattutto fra i loro capi, era ed è un dato di fatto incontrovertibile; ma solo il fascismo al potere era riuscito a piegare al suo servizio la loro Associazione. la propaganda del regime era tuttavia riuscita a far diventare communis opinio che i reduci fossero naturaliter fascisti. E da questa convinzione rimasero dipendenti anche eminenti figure di antifascisti, quali Augusto Monti e Vittorio Foa, membri di un partito, quello d'Azione, che pur aveva nelle sue file molti combattenti e volontari del '15- '18, a cominciare da Ferruccio Parri, Ernesto Rossi ed Emilio Lussu, che divenne ministro della Assistenza postbellica. Bistarelli osserva giustamente che il partito d'Azione avrebbe potuto per questo motivo essere - ma perse l'occasione - quello più disponibile a comprendere la specificità dei reduci e dei problemi che essi ponevano, al di là dei tentativi di strumentalizzazione, che pure vi furono ma senza successi diffusi da parte delle forze di estrema destra. La specificità della situazione dei reduci è in realtà il tema di fondo sotteso a tutto il volume. Dalle opinioni che si avevano in merito scaturivano le linee di condotta dell'azione politica, sindacale e di governo. La questione può essere così sintetizzata: era possibile riconoscere ai reduci una loro specificità senza che questa venisse considerata un privilegio? Ai reduci erano riservati nelle occasioni ufficiali alti sonanti riconoscimenti che a molti di essi dovevano suonare retorici e perfino fastidiosi (voi che avete offerto il petto alle nemiche lance, eccetera). Ma la massa dei reduci era costituita da persone in carne ed ossa, stanche, dolenti fisicamente e moralmente, spesso affamate e malvestite e soprattutto disoccupate. In che modo, oltre che con parole di maniera, la patria poteva compensare i sacrifici per essa affrontati? La risposta più lineare era: reintegrandoli nella qualità di cittadini in una nazione divenuta democratica. Quindi nessuna differenza fra loro e gli altri disoccupati, gli altri ammalati, gli altri nullatenenti: insomma nessun privilegio, ma ovvia estensione ad essi dei provvedimenti che il nuovo governo prendeva per la gran massa di bisognosi che la guerra aveva lasciato in eredità all’Italia. Questa fu in sostanza la linea prevalente, con varianti e addolcimenti vari sui quali non possiamo qui soffermarci, e che ispirò nel fondo anche il benemerito ministero per l'Assistenza Postbellica, retto l'uno dopo l'altro dall'azionista Lussu, dall'esponente del vecchio combattentismo Gasparotto, dal comunista Sereni. Faccio solo un esempio: comparve la proposta di trovare la ratio di eventuali provvedimenti a favore dei reduci nel fatto che essi avevano perso alcuni anni della normale preparazione alla lotta per la vita nei confronti di chi era invece rimasto a casa. Ne discendeva che gli eventuali provvedimenti avrebbero dovuto riguardare anche coloro che, richiamati alle armi, erano poi stati sempre nella portineria del ministero della Guerra. Anche il rapporto con i sindacati non fu per i reduci facile. Le grandi e sincere proclamazioni - fratellanza di reduci e lavoratori - non trovavano preciso riscontro nella pratica. Alle porte delle fabbriche bussavano migliaia di lavoratori, non solo reduci, mentre coloro che lavoravano difendevano la loro posizione contro i temuti licenziamenti per far posto ad altri, quali appunto i reduci. Particolarmente scabrosa fu la posizione delle donne assunte durante la guerra in sostituzione dei richiamati. Di Vittorio prese pubblicamente e con recisione posizione a loro favore; ma la pressione contro di loro, considerate delle intruse da parte di molti reduci, fu fortissima e non senza risultati, favoriti dalla diffusa opinione che il posto naturale per le donne fosse il focolare domestico e non la fabbrica o l'ufficio. Quando poi il governo emanò disposizioni per l'assunzione di una quota di reduci da parte delle aziende, queste spesso le violarono, e talvolta con notevole sfacciataggine. Più equanime fu lo Stato che indisse per l'accesso alla carriere pubbliche speciali concorsi riservati ai reduci. Bistarelli dedica molte pagine a illustrare il ruolo di primo piano che venne assumendo nell'assistenza ai reduci l'attività svolta dalla Chiesa cattolica. Sottolinea che questa efficace azione si inquadrò nel progetto di conquista della società da parte della Chiesa, direttamente o tramite la Democrazia Cristiana. La Pontificia Opera di Assistenza aveva il vantaggio di non essere vincolata dal quadro generale di cui doveva tenere conto il governo, tenuto a trasformare in deliberazioni giuridicamente efficaci le proprie decisioni. Un bell'esempio dell'uso intelligente che la Poa seppe fare di questa sua posizione di vantaggio è dato da alcune istruzioni che essa inviò ai parroci. I reduci, vi si leggeva, non vanno trattati come malati o come bambini: essi sono uomini con un loro orgoglio, che portano dentro di sé le tracce della dura esperienza vissuta. Bellissime parole, rivolte alla umanità dei reduci, non discussioni sul loro status giuridico e nemmeno invocazioni a quei valori militarpatriottici che i reduci, come ho già accennato, ascoltavano nei discorsi ufficiali ma che erano proprio quelli che si erano ormai in larga parte incrinati nelle loro coscienze. Un'ultima osservazione, fra le tante che si potrebbero ancora fare. Bistarelli segnala che il rapido smantellamento del Ministero dell'Assistenza Postbellica fece perdere l'occasione di avviare anche in Italia la costruzione di quel Welfare State che il piano Beveridge aveva promosso in Gran Bretagna. Diffidenze politiche (l'ultimo ministro era stato il comunista Sereni) e limitatezza di orizzonti culturali concorsero nel produrre questo risultato deludente, che si aggiunge ad altri analoghi di quel periodo. |
Ultimo aggiornamento ( venerdì 12 ottobre 2007 )
|
|
Scritto da Redazione
|
martedì 09 ottobre 2007 |
Agostino Bistarelli, La storia del ritorno. I reduci italiani del secondo dopoguerra, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 269. -------------------------------------------------- Marco Unia, Intervista. Lo sbando dei soldati italiani, la «guerra civile» e la questione dei reduci: parla lo storico Agostino Bistarelli. «Uno stato di abbandono che venne superato grazie all' azione della Chiesa». L'operato di Montini e De Gasperi L’8 settembre e la patria senza ethos, in «Avvenire», 19 settembre 2007, p. 30. ------------------------------------ «Quanno’io tornaie a’ll’ata guerra, chi me chiammava 'a ccà, chi me chiammava 'a llà... Ma mo pecchè nun ne vonno sèntere parlà?». Il senso di smarrimento e di isolamento sociale manifestato da Gennaro, protagonista della commedia «Napoli milionaria» di Edoardo De Filippo, non fu un caso isolato nell'Italia del secondo dopoguerra: molti tra i 5 milioni di reduci, tra soldati mobilitati e protagonisti della “guerra civile”, si sentirono infatti abbandonati alloro destino e furono vittime di forme più o meno gravi di disadattamento. Lo studioso Agostino Bistarelli, autore del volume La storia del ritorno (Bollati Boringhieri), fornisce le prove documentali del fenomeno e chiarisce le cause di quest' incredibile abbandono sociale, che vide la Chiesa impegnata in prima linea a sostegno dei reduci. Professor Bistarelli, il primo problema sembra essere quello dell'identificazione: in una guerra totale si può ancora distinguere tra civili e militari, o tutti sono dei reduci? «Rispetto alla guerra precedente, la figura del reduce è indubbiamente più frammentata. Rientra ad esempio nella categoria chi ha combattuto nell'esercito regolare fino al 1943, ma anche i civili che hanno compiuto l'esperienza partigiana, i militanti nella Repubblica Sociale Italia, gli internati di guerra nei campi di prigionia tedesca, sia 9uellireclusi per motivi razziali sia quelli reclusi per motivi politici. Oltre che frammentata, l'esperienza del reduce è inoltre polisemica: in molti hanno combattuto nell'esercito regolare fino all'8 settembre e poi sono divenuti partigiani, altri hanno collaborato con i tedeschi. Si tratta di un quadro molto complesso e dinamico». Perché fino ad oggi sono mancati studi che affrontassero il problema dei reduci nel suo insieme, considerando che sono trascorsi sessant'anni dalla fine della guerra? «Ricordare ciò che si è stati e cosa si è fatto significa assumersi la responsabilità dei propri gesti. Nel dopoguerra l' obiettivo della classe politica e della società civile era piuttosto quello di rimuovere il passato. Il reduce, m quanto tale, era un ricordo del passato che doveva essere dimenticato, soprattutto se si voleva conservare il mito dei militari italiani "brava gente", che si diffuse dopo la guerra. Contro l'esigenza di una ricostruzione accurata della vicenda dei reduci c'era anche l'imbarazzo politico comune ai diversi schieramenti: ricordare i prigionieri degli alleati era imbarazzante per una parte politica quanto lo era è per la destra ricordare i prigionieri dei tedeschi. Non trascurerei neppure la preoccupazione di conservare il mito palingenetico della Resistenza, che veniva posto come momento di svolta della nazione: i reduci erano i testimoni di una storia fatta più di chiaroscuri, per cui si poteva prima essere stati buoni soldati de1 regime e in seguito resistenti». Una certa ritrosia nello scrivere questa storia l'avrà anche avutail carattere geneticamente di destra dei reduci? «Questo è il più grave errore interpretativo in cui si possa incorrere analizzando la storia del fenomeno. Il reduce non è costituzionalmente un uomo di destra, anche se i partiti e le forze sociali del secondo dopoguerra utilizzarono sotterraneamente questa categoria interpretativa. Queste forze politiche e sociali avevano probabilmente paura del riformarsi di un combattentismo di destra, simile a quello che aveva imperversato in Italia nel primo dopoguerra. .. «La paura era effettivamente quella. Ma m questo caso da un errore di valutazione ne discendevano a pioggia altri. il primo luogo infatti il combattentismo del primo dopoguerra non era stato fascista». Eppure Mussolini si era presentato dal re nel 1922 come il rappresentante dell'Italia di Vittorio Veneto e i fascisti rivendicavano la loro partecipazione alla prima guerra… «Il fascismo si presentò in effetti come espressione del mondo combattente e come erede dell' esperienza di guerra. Ma il piano della memoria è diverso da quello della storia. L' autorappresentazione fascista non era veritiera, ma la sua forza propagandistica incise anche sui partiti antifascisti del dopoguerra. Sconfitto dalla storia, il fascismo resisteva su un piano culturale. In realtà il combattentismo del primo dopoguerra era stato nella sua maggioranza espressione di una concezione democratica dello Stato». Da un punto di vista socio-assistenziale i partiti di governo seppero offrire un aiuto ai reduci per reinserirsi nella società? «La varietà di tipologie di reduci prodotte dal secondo conflitto mondiale e dall'esito che ebbe in Italia rese indubbiamente difficile l'adozione di una normativa unitaria. A questo problema si deve aggiungere la concorrenza che si sviluppò tra istituzioni civili e militari, con la moltiplicazione degli uffici preposti e il sovrapporsi delle competenze». E quale fu il ruolo della Chiesa nel campo dell'assistenza? «La Chiesa ebbe un atteggiamento lungimirante verso i reduci. Una visione strategica e morale molto coerente. I documenti di Montini sulla questione dei reduci indicano una visione politica decisamente più avanzata anche rispetto alle posizioni espresse da un prestigioso esponente del mondo politico cattolico come De Gasperi». Resta un'ultima questione da affrontare: le associazioni dei reduci, che si moltiplicarono nel paese, seppero aiutare adeguatamente i loro iscritti? «Per quanto riguarda la tutela degli interessi degli iscritti si mossero bene e seppero anche creare un senso di appartenenza tra gli iscritti. Furono invece meno pronti nel conquistarsi uno spazio di rappresentanza politica. Più che costituirsi come forza autonoma, la scelta delle associazioni fu quella di legarsi alle forze politiche, cercando di ottenere in cambio benefici per i propri iscritti».
|
Ultimo aggiornamento ( martedì 09 ottobre 2007 )
|
|
|