Ulteriore recensione sul libro di Bistarelli |
Scritto da Redazione | |
domenica 14 ottobre 2007 | |
Raffaele Liucci, Tutti a casa. A fare che?, in «Il Sole24Ore», 19 agosto 2007, p. 32.
«Ogni tanto gli scappava detto qualcosa di quello che gli era capitato nei lunghi anni di "naja": un episodio, un incontro, un pericolo a cui era fortunosamente scampato. Tutti insorgevano. La nonna e il nonno, i fratelli, i cognati, i parenti, il mondo. "Tu e la tua guerra gridavano. Se n'ha abbastanza, noialtri, di queste storie di guerra!"». Così Sebastiano Vassalli fotograferà, nel romanzo L'oro del mondo, la freddezza, il fastidio e persino il rancore che accolsero i reduci italiani dal secondo conflitto mondiale. Tornavano a casa dopo anni, trascorsi nei cinque continenti, sul fronte russo, nel pantano greco, fra le dune del Sahara, all'ombra delle torrette di qualche campo di concentramento tedesco o inglese o americano. S'aspettavano un'accoglienza calorosa. Ma questi soldati sfiniti, abbruttiti, mutilati erano l'effigie d'una guerra maledetta, che non aveva risparmiato il suolo della patria. Disconoscere i loro sacrifici significava anche esorcizzare una disavventura salutata, cinque anni prima, dalle ovazioni delle piazze oceaniche. D'altra parte, gli italiani sono sempre stati grandi maestri nell'arte dell'oblio. La sconfitta trasformata in "armistizio". L'occupazione militare edulcorata in “alleanza”. I quaranta milioni di fascisti diventati quaranta milioni di antifascisti dopo Piazzale Loreto. E così nell’Italia liberata, gli unici responsabili della guerra sembravano essere i suoi disorientati reduci in grigioverde: «Non capivo più nulla, solo che mi dovevo vergognare ancora una volta», scriveva uno di loro, Oreste Del Buono, autore di amarissime schegge autobiografiche sul difficile ritorno in un Paese diverso da quello lasciato. Dopodichè, il capitolo sarà archiviato, espunto dalla memoria collettiva e trascurato persino dalla storiografia. Eppure, il rientro dei reduci aveva rimescolato in profondità la società. Durante la guerra furono mobilitati quasi cinque milioni di uomini, dei quali un milione e trecentomila finirono prigionieri, in mani tedesche o alleate. Il rimpatrio di queste ingenti masse innescherà attriti, conflitti e proteste, tanto che molti, non riuscendo a trovare un lavoro, dopo esserselo conteso con braccianti e operai, saranno costretti a emigrare. Come mai, allora, questa rimozione? Perché non c’è nulla di gratificante nel rievocare le traversie di una guerra perduta. Ma anche perché i reduci rappresentavano un universo troppo frammentato, incapace di produrre un collante identitario. I prigionieri “non cooperatori” del campo di Hereford (Texas), per lo più fascisti fino alla fine. Gli internati in Germania, che avevano rifiutato di prestare giuramento alla Rsi in cambio di un trattamento più umano. I combattenti di Salò. I soldati del Corpo italiano di liberazione. I militari riparati in Svizzera. Difficile trovare un trait d’union. Sullo sfondo, il controllo politico e clientelare che i partiti cercheranno di assicurarsi sulle varie associazioni, onde evitare la sindrome del primo dopoguerra, quando il combattentismo, lasciato a briglia sciolta, era in buona parte confluito nel fascio di Mussolini. Tutti temi affrontati in un recente volume di Agostino Bistarelli, il primo studio d’insieme sull’argomento. L’autore ha pregevolmente attinto a una vasta messe di fonti memorialistiche e archivistiche. Purtroppo, una struttura turgida e uno stile sfocato inceppano la lettura. Si avverte la mancanza di un robusto editing. Del resto, «gi storici italiani scrivono mediamente male, ma non solo perché sono involuti, trasandati o prolissi: soprattutto perché non si pongono il problema della scrittura come elemento costitutivo della ricerca». Ha potuto permettersi di dirlo un autorevole membro della categoria, Silvio Lanaro, uno dei pochissimi a porsi coscientemente il problema. |
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Ultimo aggiornamento ( domenica 14 ottobre 2007 ) |