Agostino Bistarelli, La storia del ritorno. I reduci italiani del secondo dopoguerra, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 269. -------------------------------------------------- Marco Unia, Intervista. Lo sbando dei soldati italiani, la «guerra civile» e la questione dei reduci: parla lo storico Agostino Bistarelli. «Uno stato di abbandono che venne superato grazie all' azione della Chiesa». L'operato di Montini e De Gasperi L’8 settembre e la patria senza ethos, in «Avvenire», 19 settembre 2007, p. 30. ------------------------------------ «Quanno’io tornaie a’ll’ata guerra, chi me chiammava 'a ccà, chi me chiammava 'a llà... Ma mo pecchè nun ne vonno sèntere parlà?». Il senso di smarrimento e di isolamento sociale manifestato da Gennaro, protagonista della commedia «Napoli milionaria» di Edoardo De Filippo, non fu un caso isolato nell'Italia del secondo dopoguerra: molti tra i 5 milioni di reduci, tra soldati mobilitati e protagonisti della “guerra civile”, si sentirono infatti abbandonati alloro destino e furono vittime di forme più o meno gravi di disadattamento. Lo studioso Agostino Bistarelli, autore del volume La storia del ritorno (Bollati Boringhieri), fornisce le prove documentali del fenomeno e chiarisce le cause di quest' incredibile abbandono sociale, che vide la Chiesa impegnata in prima linea a sostegno dei reduci. Professor Bistarelli, il primo problema sembra essere quello dell'identificazione: in una guerra totale si può ancora distinguere tra civili e militari, o tutti sono dei reduci? «Rispetto alla guerra precedente, la figura del reduce è indubbiamente più frammentata. Rientra ad esempio nella categoria chi ha combattuto nell'esercito regolare fino al 1943, ma anche i civili che hanno compiuto l'esperienza partigiana, i militanti nella Repubblica Sociale Italia, gli internati di guerra nei campi di prigionia tedesca, sia 9uellireclusi per motivi razziali sia quelli reclusi per motivi politici. Oltre che frammentata, l'esperienza del reduce è inoltre polisemica: in molti hanno combattuto nell'esercito regolare fino all'8 settembre e poi sono divenuti partigiani, altri hanno collaborato con i tedeschi. Si tratta di un quadro molto complesso e dinamico». Perché fino ad oggi sono mancati studi che affrontassero il problema dei reduci nel suo insieme, considerando che sono trascorsi sessant'anni dalla fine della guerra? «Ricordare ciò che si è stati e cosa si è fatto significa assumersi la responsabilità dei propri gesti. Nel dopoguerra l' obiettivo della classe politica e della società civile era piuttosto quello di rimuovere il passato. Il reduce, m quanto tale, era un ricordo del passato che doveva essere dimenticato, soprattutto se si voleva conservare il mito dei militari italiani "brava gente", che si diffuse dopo la guerra. Contro l'esigenza di una ricostruzione accurata della vicenda dei reduci c'era anche l'imbarazzo politico comune ai diversi schieramenti: ricordare i prigionieri degli alleati era imbarazzante per una parte politica quanto lo era è per la destra ricordare i prigionieri dei tedeschi. Non trascurerei neppure la preoccupazione di conservare il mito palingenetico della Resistenza, che veniva posto come momento di svolta della nazione: i reduci erano i testimoni di una storia fatta più di chiaroscuri, per cui si poteva prima essere stati buoni soldati de1 regime e in seguito resistenti». Una certa ritrosia nello scrivere questa storia l'avrà anche avutail carattere geneticamente di destra dei reduci? «Questo è il più grave errore interpretativo in cui si possa incorrere analizzando la storia del fenomeno. Il reduce non è costituzionalmente un uomo di destra, anche se i partiti e le forze sociali del secondo dopoguerra utilizzarono sotterraneamente questa categoria interpretativa. Queste forze politiche e sociali avevano probabilmente paura del riformarsi di un combattentismo di destra, simile a quello che aveva imperversato in Italia nel primo dopoguerra. .. «La paura era effettivamente quella. Ma m questo caso da un errore di valutazione ne discendevano a pioggia altri. il primo luogo infatti il combattentismo del primo dopoguerra non era stato fascista». Eppure Mussolini si era presentato dal re nel 1922 come il rappresentante dell'Italia di Vittorio Veneto e i fascisti rivendicavano la loro partecipazione alla prima guerra… «Il fascismo si presentò in effetti come espressione del mondo combattente e come erede dell' esperienza di guerra. Ma il piano della memoria è diverso da quello della storia. L' autorappresentazione fascista non era veritiera, ma la sua forza propagandistica incise anche sui partiti antifascisti del dopoguerra. Sconfitto dalla storia, il fascismo resisteva su un piano culturale. In realtà il combattentismo del primo dopoguerra era stato nella sua maggioranza espressione di una concezione democratica dello Stato». Da un punto di vista socio-assistenziale i partiti di governo seppero offrire un aiuto ai reduci per reinserirsi nella società? «La varietà di tipologie di reduci prodotte dal secondo conflitto mondiale e dall'esito che ebbe in Italia rese indubbiamente difficile l'adozione di una normativa unitaria. A questo problema si deve aggiungere la concorrenza che si sviluppò tra istituzioni civili e militari, con la moltiplicazione degli uffici preposti e il sovrapporsi delle competenze». E quale fu il ruolo della Chiesa nel campo dell'assistenza? «La Chiesa ebbe un atteggiamento lungimirante verso i reduci. Una visione strategica e morale molto coerente. I documenti di Montini sulla questione dei reduci indicano una visione politica decisamente più avanzata anche rispetto alle posizioni espresse da un prestigioso esponente del mondo politico cattolico come De Gasperi». Resta un'ultima questione da affrontare: le associazioni dei reduci, che si moltiplicarono nel paese, seppero aiutare adeguatamente i loro iscritti? «Per quanto riguarda la tutela degli interessi degli iscritti si mossero bene e seppero anche creare un senso di appartenenza tra gli iscritti. Furono invece meno pronti nel conquistarsi uno spazio di rappresentanza politica. Più che costituirsi come forza autonoma, la scelta delle associazioni fu quella di legarsi alle forze politiche, cercando di ottenere in cambio benefici per i propri iscritti».
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