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Quel fascista era mio padre. Il racconto del figlio Pierluigi Battista PDF Stampa E-mail
Scritto da Redazione   
domenica 24 gennaio 2016

L’avvocato Battista aveva il suo studio in Prati, un tranquillo quartiere borghese di Roma, e abitava con la moglie e i quattro figli in una bella casa a pochi passi da lì. Penalista affermato, fondatore della Camera penale del Tribunale di Roma, forte personalità, era un professionista brillante, integrato, sicuro di sé. Vestiva abiti scuri nei tre pezzi regolamentari, giacca, pantaloni, gilet, prediligeva il color antracite e i toni del grigio scuro; talvolta, unico cedimento,

osava il gessato e persino il blu elettrico sul lino per il caldo d’estate. Portava camicie su misura con cifre ricamate in basso a sinistra, di norma bianche ma pure azzurre a righine sottili e sempre accordate con cravatte regimental.

Bandite, per motivi non solo anagrafici, tee shirt e magliette varie, l’avvocato Battista era sempre in giacca e cravatta. La vestizione quotidiana era un rito codificato, specie in occasione di ricevimenti serali, che richiedevano dettagli ricercati, come la giarrettiera al ginocchio, la cui funzione era di sostenere sul polpaccio i calzini da smoking in filo sottile. Calzava mocassini o scarpe coi lacci sempre smaglianti, visto che era lui stesso, armato di spazzole e cromatina, a dedicarsi personalmente alla loro pulizia. A tavola, da maniaco della buona educazione, controllava l’apertura alare dei quattro figli bambini, vietando loro di rigore i gomiti sul tavolo, il risucchio da minestra o altri liquidi, l’uso improprio di forchetta e coltello e la manducazione a bocca aperta. Da uomo d’ordine, s’accordava un’unica concessione allorché nel pieno della canicola romana era uso chiedere alla moglie “il permesso di mettersi in libertà”, che per lui voleva dire togliersi la giacca, allentare il nodo della cravatta e slacciarsi il primo bottone della camicia. Il fatto è che era o voleva essere un perfetto borghese amico delle norme, cultore dell’etichetta e del baciamano, devoto ai rituali del suo tempo e rispettoso di tutte le formalità imposte dal decoro borghese.

La sua casa era un tempio dell’ordine. Ogni stanza, ogni oggetto e ogni dettaglio tradivano l’amore per le forme, il rispetto delle regole, la ricerca dell’eleganza, e una certa ansia da conformismo.

Pavimenti di marmo tirati a lucido e coperti da tappeti persiani, tende e divani in stoffa damascata, tavolini bassi con al centro un cachepot fiorito e tutto intorno disseminati vari oggetti, simbolo di buon gusto e raffinatezza, portasigarette e cornici in argento, soprammobili in porcellana, ninnoli ricercati, libri d’arte sul Rinascimento o il Manierismo; mentre le pareti erano decorate da tele d’autore, spesso dono di clienti facoltosi, o rivestite da severe librerie con scaffali unidimensionali e rilegature in serie dalle tinte sobrie e molti dorsi targati Mursia e Rusconi.

Marito felice, padre di famiglia, professionista di successo, l’avvocato Battista era un uomo risolto, amante del bello, cultore delle forme rassicuranti della vita quotidiana. Eppure, dietro la serenità delle apparenze, covava l’animo di un apocalittico. Egli era infatti un uomo inquieto, un tormentato e nel suo foro interiore viveva con un altro sé, ombroso, sepolcrale, risentito. Trincerato in un dolore inespugnabile, era stato ferito giovanissimo da una feroce disillusione. Aveva vissuto in prima persona il senso della fine, la morte della patria, come il fallimento di un’intera generazione, e tutto questo da uomo maturo lo condannava a vivere la sua vera vita da esule in patria.

L’avvocato Battista era infatti fascista. Non solo in senso tecnico, per motivi anagrafici oltre che famigliari, ma in senso antropologico e morale. Nato a Bari tre giorni prima della marcia su Roma, il 25 ottobre 1922, da un padre fascistissimo che aveva sempre rimpianto la mancata coincidenza del calendario, legata ai capricci del parto, Vittorio Battista aveva vissuto l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza da figlio della lupa, balilla, da volontario in guerra, partito per il fronte a 18 anni grazie alla dispensa paterna. E fascista soprattutto aveva voluto restarlo anche dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943, e dopo l’armistizio dell’8 settembre, e persino dopo la fine del regime di Salò e la sua condanna. Nel momento del dramma, si era infatti arruolato nella milizia della Repubblica sociale. A 22 anni aveva superato la linea d’ombra, scivolando fra gli oltranzisti difensori del fascismo, fra i così detti servi del nazismo che per la communis opinio democratica e antifascista sarebbero diventati non solo i vinti, gli sconfitti, ma “la parte sbagliata”, condannata senza appello dal tribunale della storia, i proscritti senza onore dalla Repubblica nata dalla Resistenza.

Fascista per di più, l’avvocato Battista aveva voluto continuare a professarsi anche nel dopoguerra e negli anni del boom. Aveva preso parte alla fondazione del Movimento sociale italiano, il partito dei reduci neofascisti che pur essendo rimasti fuori dall’arco costituzionale s’erano messi in testa di competere nell’agone della neonata democrazia parlamentare. Aveva scelto di militare per la Fiamma, decidendo però di astenersi dalla battaglia politica, di evitare di scendere in campo in prima linea, rinunciando all’impegno diretto per coltivare i suoi ideali politici in privato e nell’esercizio della sua professione. A costo di vivere una vita sdoppiata, di abitare due esistenze, quella apollinea e risolta del professionista di successo e quella dionisiaca e sepolcrale dell’apocalittico rancoroso e marginale, l’avvocato Battista non aveva mai smesso di patire le stigmate del paria, dell’esule in patria, senza deflettere dall’imprinting originale e dalla scelta giovanile di aderire a Salò.

Strano personaggio, dunque. Con i figli, sin dalla loro più tenera età, Vittorio Battista aveva tentato la carta dell’indottrinamento diretto, educandoli a una controstoria ragionata, alimentando la versione dei vinti, l’unica vera ai suoi occhi, e alternativa alla vulgata dei vincitori. “Guarda Littoria, via dell’Impero, guarda il Foro Mussolini, guarda la grande tela di Mario Sironi, vilipesa dai vincitori”, diceva nei molti viaggi in automobile o passeggiando per le strade di Roma al figlio Pierluigi, futura firma del Corriere della Sera, che da lui ricevette le prime lezioni di revisionismo liberale e libertario. “Latina, via dei Fori imperiali, il Foro Italico, sono stati i vincitori a chiamarli così, ma dopo”.

Ma il figlio di questo padre singolare, ostinato e maniaco, generoso e intrattabile, risentito ma affabile, disilluso e però capace di virtù, di quel padre con cui passava lunghe ore chiuso in una delle stanze più buie dello studio a compulsare i fascicoli di storia di Giorgio Pisanò sulla morte del duce, lo stupro di Claretta, il tesoro di Dongo, un bel giorno decise di tradirlo. Adolescente, negli anni del liceo gli voltò le spalle, scegliendo il campo avverso, come egli stesso confessa nel bellissimo ritratto non poco autobiografico che ora gli dedica (Mio padre era fascista, Mondadori, 168 pp., 17,50 euro). Dannunzianamente il figlio di quel padre fascista decise di “andare verso la vita”, per passare dalla “parte giusta”, gettandosi dietro le spalle il cupo tramonto, il culto cimiteriale degli esclusi, la fiamma tricolore del partito neofascista che rinasceva dalle ceneri del duce, e tutte le reliquie dei reduci, dei vinti, degli esuli in patria, che sognavano di riscattare la nazione e ritrovare l’onore perduto. “Fu uno strappo doloroso. Ma io mi ribellai: non accettai di essere risucchiato nelle ombre che angustiavano mio padre. Non volevo essere il reduce lacero e sconfitto di una guerra che non avevo mai combattuto. Diventai, appena raggiunta l’età del liceo, il figlio antifascista e di sinistra di un padre fascista”. Se fosse circoscritta al conflitto generazionale, allo scontro tra un padre repressivo e un figlio libertario, all’incompatibilità antropologica tra il decoro della destra in doppiopetto e lo sbraco radical chic degli antifascisti progressisti in giacca di tweed, pantaloni di velluto, attico al centro con pavimenti di cotto, travi a vista e lunghe fughe di librerie persino in bagno, la vicenda del padre fascista e del figlio antifascista sarebbe insignificante, e rilevante tutt’al più sul piano del gusto, più che su quello delle idee. Nel suo esercizio impudico di autocritica, Pigi Battista spiega infatti con deliziosa ironia la natura sostanzialmente estetica dell’attrazione che all’inizio degli anni Settanta la cultura democratica e progressista esercitava su un liceale del Mamiani, spingendolo a bazzicare fra i gruppuscoli della sinistra extraparlamentare nel suo ripudio della casa paterna. E invece, il dramma di un padre fascista che finì per ritrovarsi solo, tradito dai suoi stessi figli, si colora in queste pagine di una luce nuova, livida, fredda, accecante, non appena il figlio antifascista abbandona i panni dell’adolescente scemo per quelli dell’uomo maturo capace di pietas, animato da una non comune volontà di comprensione, anche a costo di un’autodenigrazione impietosa. Intendiamoci: Pierluigi Battista non salva Vittorio. Non ha alcuna indulgenza verso il fascista che era suo padre, verso le sue idee, le sue manie. Ne offre un ritratto ricchissimo e pieno di sfumature, ma continua a dargli il tormento anche quando ne racconta la ritrosia ad affrontare le questioni più scabrose, schivando il fondo dell’antisemitismo e delle persecuzioni razziali, o quando ne dipinge l’incongruenza mettendo in scena, da un lato, il fanatico difensore dello stato totalitario e della sua eredità, il fascista ostinato e incrollabile che nulla concedeva all’individuo e alle garanzie costituzionali dell’individuo, e raccontando però allo stesso tempo la passione paradossale del giurista raffinato, che finiva per essere forse suo malgrado un maestro di garantismo, sia in veste di penalista attento al diritto alla difesa, sia in veste di padre e di semplice cittadino, scrupoloso del rispetto delle procedure anche in frangenti drammatici, come la sospensione del figlio dal liceo. L’ambivalenza del padre diventa così materia per un romanzo a sé, di cui il figlio a posteriori restituisce la trama in dettaglio, quando racconta per esempio la difesa d’ufficio assunta dall’avvocato Battista nei confronti di una terrorista rossa come Maria Pia Vianale, che di giustizia borghese non ne voleva sapere, o quando ricostruisce il capitolo (vieppiù sconvolgente ai suoi occhi di memorialista) della mancata difesa da parte del padre fascista del figlio liceale e di sinistra, sospeso per aver preso a schiaffi il vicepreside del Mamiani, e però rimasto per quarant’anni ignaro della protesta che quel garantista di suo padre significò ai professori antifascisti del liceo romano, per aver essi stessi usato i metodi inaccettabili del tribunale del popolo, senza lasciare al figlio colpevole il diritto di difendersi. Nessuna indulgenza dunque per il fascista, ma molta pietas lungimirante verso quel padre impossibile e segreto, inflessibile e incongruo, tormentato ma esemplare. A ispirare la pietas è un amore filiale fuori tempo massimo che ricorre a una serie di espedienti letterari tutti veri, però, come il manoscritto nascosto per decenni e la lettera riaffiorata per caso da un cassetto dimenticato.

In tempi di “autofiction” imperante, Battista figlio dipinge il ritratto del padre fascista prendendo le mosse da un diario nascosto: gli appunti che il giovane repubblichino iniziò a scrivere durante i mesi di internamento nel campo di Coltano, provincia di Pisa, dove finì con altri 35 mila fascisti di Salò prigioniero degli americani, e che l’avvocato di successo continuò a riscrivere per tutta la vita, aggiornando di continuo il suo tormento. Il campo di Coltano era

quello dove un ragazzo di Salò poteva morire fucilato solo per essersi avvicinato al filo spinato, e dove il poeta Ezra Pound finì recluso come un animale rabbioso in una gabbia all’aperto, di due metri per due, costretto a subire la furia degli elementi e a dormire sulla nuda terra. Per anni, quegli appunti furono il ricettacolo del senso di sgomento, dell’umiliazione e soprattutto del trauma indelebile che Vittorio Battista visse a ventidue anni, dopo esser stato costretto a sfilare in catene verso il campo pisano, nell’afa soffocante dell’estate 1945. Fu allora che venne esposto a una gogna inaspettata, linciato da una folla imbestialita che lanciava sassi e copriva di insulti quei ragazzi come lui al grido di “canaglia di fascista”, “criminali, delinquenti”, e li irrideva con gesti volgari, con le donne che alzavano le gonne per negar lor ogni concessione e le madri che si rifiutavano di dar loro da bere: “Tutto è finito. Tutto quello che avevamo sognato, tutto cade intorno a noi”, scrive Vittorio Battista prigioniero a Coltano. “Abbiamo contro non solo lo straniero tracotante, ma anche buona parte del popolo italiano (…) Iniziano i maltrattamenti della popolazione, come se noi fossimo degli assassini e non dei combattenti”. E poi: “Questa bastarda popolazione intenta a corteggiare gli stranieri che occupano (‘liberano’) il suolo della Patria, queste donne che gridano ‘canaglia di fascisti’. Ci sono dei soldati che hanno sete e delle donne, delle mamme, si rifiutano di dare loro da bere. Ci sputano addosso, ci fanno dei cenni volgari, ci chiamano delinquenti e fino a ieri abbiamo rischiato la vita per loro! Non credo quasi a quello che vedo. Ora che nelle città entra il nemico è festa per tutti. E’ la vittoria degli imboscati e dei vili su coloro che hanno sofferto e combattuto. La plebaglia incosciente, camaleonte e servile: questo che noi chiamiamo popolo italiano. Prima di entrare nella tenuta di San Rossore la popolazione di Pisa e dintorni ci accoglie con un nutrito lancio di pietre e insulti vari”. Non ebbe diritto all’onore dei vinti il padre fascista di Pierluigi Battista e come lui non l’ebbero i ragazzi di Salò che finirono dalla parte sbagliata. Esclusi, rejetti, condannati a restare nell’ombra, vennero assimilati all’essenza del male, al nazismo, anche quando essi stessi erano critici verso il regime di Hitler, anche quando come Vittorio Battista si mostravano insofferenti ai così detti “baffetti”. Ma il sentimento prevalente che rende questo libro una lettura chiave, che segna un punto di non ritorno nella produzione contemporanea, è la sorpresa retroattiva, lo stupore misto al rimorso che colora la pietas del figlio antifascista di un padre fascista sì, ma capace di virtù, modello di civismo, scuola di integrità, e in questo senso ben più esemplare di tanti antifascisti democratici e progressisti schierati della parte giusta. Così questo libro che si legge come un romanzo, anche se racconta la storia di una vita vera, apre uno squarcio sulla storia d’Italia degli ultimi settant’anni. Trovando il coraggio di scriverlo, Pigi Battista dimostra forse che è venuto il momento di porsi sine ira ac studio alcune domande non retoriche sul perché decine di migliaia di giovani e di non giovani aderirono alla Repubblica sociale pur sapendo che era una causa persa; e dimostra che è arrivata l’ora di ricostruire sine ira ac studio cosa realmente accadde e cosa fecero, in positivo e in negativo, non solo le forze armate in grigioverde e in camicia nera, ma anche le amministrazioni civili di quello stato sui generis, troppo a lungo assimilato a un fantoccio nelle mani di Hitler, e di capire pure cosa è rimasto d’ancora attuale di quel corpus di dottrine che lo rese possibile e che è stato condannato alla damnatio memoriae. Tante domande che questo libro struggente sollecita, e non è poco, considerando l’eredità morale di un padre fascista al figlio antifascista.

 

Il foglio, 23 gennaio 2016 _ Marina Valensise

Ultimo aggiornamento ( lunedì 25 gennaio 2016 )
 
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