I due fratelli triestini Flavio e Claudio de Ferra a Brescia nel novembre 1944
Scritto da Redazione   
venerd́ 01 gennaio 2010

I due fratelli triestini Flavio e Claudio de Ferra, presentatisi volontari il 23 settembre 1943 nella Milizia quando ancora non esisteva la RSI, hanno finito la Scuola Allievi Ufficiali di Modena, Corso Impeto, e adesso, novembre 1944, sono in attesa di destinazione presso il Comando Generale a Brescia.

 

 

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Dal libro di Claudio de Ferra “UN MILIONE E 1” edito nel 2000, seconda edizione 2002, traiamo queste pagine (pagine 112-114) in cui i due fratelli sono indicati con gli pseudonimi di Carlo (Claudio) e Fausto (Flavio).   

«Ci sono novità da Trieste?». «Ancora niente, ripassate». Ed allora non restava che andare a prendere le disposizioni della giornata all’ufficio del Comando. Non c’era molto da fare. Tutt’al più, qualche raro servizio di guardia alla notte per alleviare i compiti dei militi territoriali. Nelle lunghe notti trascorse sui bastioni della fortezza, i due fratelli facevano interminabili chiacchierate, soprattutto sulla guerra e sulla vittoria che non poteva mancare, sulla povera mamma costretta ad arrabattarsi per trovare qualcosa da portare in tavola. A Trieste si moriva letteralmente di fame perché tutti i collegamenti erano stati tagliati, mentre a Brescia, attorniata da campagne produttive, la situazione era molto diversa.Una di quelle notti di guardia in cima ai bastioni, mentre tutto era silenzio e non si vedeva nulla al di fuori della linea dell’orizzonte che si stagliava nel cielo pieno di stelle, d’un tratto si sentì arrivare lui, il solito “Pippo”. Si trattava di un aereo che ogni notte seminava la morte per le contrade d’Italia. Non gli interessavano gli obiettivi militari, lui doveva solo terrorizzare la gente e creare lutti. Cosa non si fa per portare la libertà! La gente parlava di Pippo, ma, in realtà, era un intero squadrone di aerei attrezzati per il volo notturno che a notte fonda partiva dalle basi del sud dirigendosi sulle diverse città del nord e sganciando qua e là le bombe, di solito piuttosto piccole, che recava con sé in gran numero. Gli aerei tornavano poi indisturbati alle loro basi ed i piloti, dopo il meritato riposo, rimanevano in attesa di ricevere elogi e medaglie, mentre la gente che aveva avuto l’onore della loro visita, dopo aver estratto dalle macerie i suoi morti, imprecava alla guerra e a quel benedetto Duce che non la voleva smettere. Altri popoli avrebbero maledetto il nemico assassino, ma gli italiani erano diversi dagli altri. E i “liberatori” lo sapevano bene.

Quando Pippo fu giunto sulla verticale del centro della città, sganciò la sua bomba, una sola per fortuna, e questa andò ad infilarsi giusto alla base del bastione dove stavano di guardia i due fratelli. Qui giunta, esplose senza fare danni, forse perché aveva incocciato un terreno umido e molle.Poi Pippo se ne andò, contento di aver fatto, per quella notte, il suo dovere. I due fratelli, invece, furono contenti di averla scampata bella. Un paio di metri più in là e la bomba di Pippo avrebbe fatto di loro una bella poltiglia.Brescia era una città tranquilla. I partigiani forse c’erano ma nessuno se n’era accorto. In un negozio di dischi, Carlo e Fausto scovarono, dopo lunghe ricerche, brani di musica sinfonica introvabili a Trieste. Erano dischi originali venuti dalla Germania: concerti di Händel e sinfonie di Beethoven dirette dal grande Furtwängler. Li portarono alla villa religiosamente. Una mattina, mentre stavano per uscire “verso la libertà” si udì un rombo lontano. «Ecco» gridò lo zio «lo sento, è il treno che arriva da Verona. E’ l’accelerato delle 8 e 10 che passa davanti a Ghedi col solito ritardo. E’ lui, certamente». Il rombo proveniva effettivamente da quella parte, ma era il rumore di un aereo che volava a bassa quota e puntava diritto sul campo d’aviazione di Ghedi. Su quel campo, da tempo, di aerei non se ne vedevano più. Erano stati tutti distrutti al suolo ed i pochi superstiti li tenevano ben nascosti negli hangar, dai quali non  sarebbero più usciti per mancanza di benzina. Ma c’era stata un’eccezione: pochi giorni prima tutta la città era rimasta con il naso in su per ammirare un esemplare di aereo a reazione, che i tedeschi stavano sperimentando. Un tanto era bastato per mettere in allarme gli aerei alleati, che ora stavano, appunto, provvedendo in merito.Carlo e Fausto ebbero il tempo di spalancare la porta a vetri che dava sul poggiolo e, con l’incoscienza che caratterizza i giovani, o almeno quei giovani, si diedero a fare delle fotografie del caccia americano. Carlo segnalava e Fausto prontamente inquadrava e scattava. Non disponendo di  un teleobiettivo, bisognava attendere che il caccia fosse molto vicino nei suoi ripetuti passaggi sulla direttrice del campo d’aviazione che passava nei pressi della villetta. Tra questa ed il campo c’era soltanto la linea ferroviaria. L’aereo, presa la mira, cominciò a vomitare fuoco con tutte le armi di bordo, ch’erano, come al solito, il cannoncino coassiale e le mitragliatrici sulle ali. Questi aerei non portavano bombe, per fortuna.«L’ho preso» gridò felice Fausto, mentre il caccia si dirigeva proprio verso di lui e apriva il fuoco. «Che bello! Ora devo aver preso anche il fumo delle mitragliere!». Si sentì come uno scroscio ed un paio di pallottole esplosive andarono a sbattere sulla parete della villa, ma un po’ più in alto del davanzale su cui si erano appostati i due fratelli e, fortunatamente, anche una decina di metri alla loro destra. Una cannonata era invece arrivata nel solaio, passandolo da parte a parte e andando a finire la sua corsa chissà dove. «Adesso è passato» sentenziò lo zio, tutto soddisfatto di avere lui segnalato il passaggio del treno, ben prima che gli altri se ne accorgessero. Non sarebbe stato neppure il caso di spiegargli che quel treno era mesi che non passava più, nessun treno viaggiatori passava più su quella linea continuamente bersagliata dagli aerei alleati. In quella casa doveva comandare lui e non c’era la minima possibilità di contraddirlo. Quel rumore l’aveva fatto il treno, il treno di Ghedi, e basta. Se avesse saputo dell’aereo e delle pallottole arrivate a pochi metri dal suo letto, sarebbe morto dalla paura, povero, terribile vecchio zio.Che poi un treno veramente sulla quella linea arrivò. Ma per fortuna gli aerei non se ne accorsero. Col binocolo i due fratelli riuscirono a leggere cosa ci stava dentro a quei vagoni. Erano casse di esplosivo che forse sarebbe dovuto servire per minare porti, ponti, fabbriche in caso di ritirata delle truppe tedesche. Per fortuna l’indomani quei vagoni non c’erano piùLa settimana dopo, quando le fotografie furono stampate, e si vide veramente il fumo che usciva dalle bocche delle mitragliere, Fausto fu tentato di mostrare il suo capolavoro anche allo zio. «Sarebbe la fine» gli disse Carlo e Fausto, da bravo nipote pieno di cristiana carità, rimise le foto nella busta del fotografo e di lì nel suo capace zaino. Due giorni dopo partivano per il reggimento in Istria. Dove sarebbe finita la loro avventura in guerra.
Ultimo aggiornamento ( luned́ 04 gennaio 2010 )