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Il fascismo negato. Falsi miti e luoghi comuni PDF Stampa E-mail
Scritto da Redazione   
mercoledì 24 dicembre 2008

Simonetta Fiori, Il fascismo negato. Falsi miti e luoghi comuni, in «La Repubblica», 11 settembre 2008, p. 41.

 

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«È il nostro paese, la nostra cultura nazionale, a non aver mai fatto i conti fino in fondo con il totalitarismo fascista. Le recenti sortite del sindaco di Roma e del ministro della Difesa avvengono in un contesto politico e culturale che le legittima, in un terreno favorevole concimato in questi anni da formulazioni e stereotipi diffusi purtroppo anche in parte della storiografia e nel discorso pubblico». Quella di Emilio Gentile, storico del fascismo tra i più noti sul piano internazionale, è un’antica battaglia culturale. I suoi saggi - tradotti in molti paesi - insistono su questo fenomeno tutto italiano che è la "defascistizzazione del fascismo", lo svuotamento operato sul regime dei suoi tratti liberticidi originari, la negazione del carattere totalitario. «In un mio saggio recente, a proposito di questa inclinazione nazionale all’autoassoluzione, cito la provocazione d’un anonimo secondo cui il fascismo non è mai esistito. Da battuta è diventata profezia».

In Germania è impensabile che il ministro della Difesa elogi il patriottismo delle SS o il suo collega francese pronunci accenti commossi per Vichy. Perché succede da noi?

 

«In Italia è stato cancellato tutto quello che il fascismo ha rappresentato come distruzione della democrazia e umiliazione della collettività. La defascistizzazione del fascismo nasce da un totale travisamento di quello che il regime è stato. A quest’offuscamento non è estranea la cultura antifascista. Per molti anni è prevalsa a sinistra l’immagine d’un regime ventennale sciolto come un castello di carte, una "nullità storica" con cui in sede storiografica s’è cominciato a fare i conti troppo tardi. A destra gli umori hanno oscillato tra la caricatura e l’indulgenza, fino alla tesi del fascismo modernizzatore: un’interpretazione che dura tuttora».

Per i suoi eredi politici il fascismo è una dittatura nata per caso.

«I neofascisti hanno sempre negato il carattere intenzionale della dittatura, escludendone il tratto totalitario. È la tesi circolata nel Movimento Sociale fino agli anni Ottanta, uno schema interpretativo che si riflette sulle prime dichiarazioni di Gianni Alemanno a Gerusalemme: da una parte il fascismo, fenomeno complesso; dall’altra le leggi razziali, vergogna indotta da Hitler».

Poi il sindaco di Roma ha affrettato una correzione, aggiungendo in modo contorto che non poteva disconoscere l’esito liberticida del fascismo.

«Sì, ha parlato di fenomeno totalitario, categoria negata ancora da molti storici di destra, e non solo. Ma non capisco come possano stare insieme il riconoscimento della natura totalitaria del fascismo con la sua assoluzione fino alle leggi razziali. Gran confusione alberga nella destra postfascista italiana, con un equivoco di fondo».

Quale?

«Partiamo da una domanda essenziale: la dittatura è un fatto accidentale o appartiene all’essenza del fascismo e alla volontà di Mussolini? Le leggi razziali sono estranee a ciò che il fascismo era stato fino a quel momento? Se noi optiamo per una lettura accidentale, le leggi antisemite furono un incidente di percorso dovuto a influenze esterne. Con tutto quello che ne consegue: la buona fede, il patriottismo, i valori di chi servì il fascismo».

È questa la lettura espressa da autorevoli dirigenti di Alleanza Nazionale oltre che importanti cariche istituzionali.

«Ma è un metodo inaccettabile! Con questi stessi criteri si possono riscattare lo stalinismo e il nazismo. Fino al 1941, quando il Fuhrer decise la soluzione finale, il nazismo fece tante cose buone: nessuno potrebbe negare storicamente che fu per patriottismo e non per odio agli ebrei che milioni di tedeschi videro in Hitler il salvatore. Sempre seguendo questo metodo, potremmo dire che De Gaulle e Petain avevano in contrasto solo la linea del fronte: per il resto erano due patrioti francesi...».

Il patriottismo diviene una categoria molto arbitraria. Il ministro La Russa ha reso omaggio al valore dei "patrioti di Salò".

«Quale patria? Una delle caratteristiche del fascismo fin dalle origini fu quella di negare l’esistenza di una patria di tutti gli italiani: esisteva soltanto la patria di coloro che aderirono al fascismo. Anche soggettivamente il patriottismo fascista fu liberticida. È Mussolini che il 4 ottobre del 1922, prima della Marcia su Roma, dichiarò che lo Stato fascista avrebbe diviso gli italiani in tre categorie: gli indifferenti, i simpatizzanti e i nemici. Questi ultimi, annunciò, andavano eliminati. Se si parte da queste premesse, non c’è più una patria degli italiani: c’è solo la patria dei fascisti. Per i seguaci del duce, Amendola e Sturzo non sono italiani. È questa stessa logica che nel 1938 conduce Mussolini ad affermare che gli ebrei sono estranei alla razza italiana e per questo vanno discriminati».

Un altro stereotipo invalso in articoli, libri, interviste su Salò è quello della buona fede dei ragazzi che vi aderirono.

«Per capire storicamente si deve considerare anche la buona fede. Ho scritto anch’io sul patriottismo nella Rsi. Ma la buona fede non può essere un criterio di valutazione storica! Se avessero vinto Mussolini e il Führer, che ne sarebbe stato di questi patrioti idealisti o non fascisti? Che fine avrebbero fatto in un nuovo ordine dominato da Hitler, ancor più totalitario, razzista e nutrito d’odio feroce? Anche i responsabili dei campi di concentramento nazisti come Rudolf Hoss, il comandante di Auschwitz, professarono d’essere bravi padri di famiglia e sinceri amanti della patria. Forse lo pensavano anche i guardiani dei gulag».

Perché secondo lei la destra postfascista ha difficoltà a riconoscere una realtà storica così evidente? La condanna di An finora s’è limitata alla vergogna delle leggi razziali: mai una parola sui delitti precedenti, da Amendola a Matteotti, Gobetti e i fratelli Rosselli, Gramsci che muore per la galera. Senza contare le vittime della violenza squadrista, tra il 1920 e il 1922, circa tremila morti. E i ventottomila anni di carcere comminati complessivamente dal Tribunale Speciale agli antifascisti, con una trentina di condanne a morte. E gli eccidi commessi in Africa, più tardi centinaia di migliaia di italiani mandati a morire nella guerra voluta da Mussolini. Su tutto questo un prolungato silenzio.

«Una realtà storica che non si presta a equivoci. Sono persuaso che queste dichiarazioni estemporanee, confuse e contraddittorie, di due importanti esponenti di Alleanza Nazionale siano anche il frutto di scarsa conoscenza delle vicende del fascismo, di quel che ha detto e fatto Mussolini contro la democrazia. Nel neofascismo è sempre prevalsa una visione mitico-nostalgica, che evidentemente sopravvive ancora a dispetto della conoscenza storica».

Su questa visione irrazionale s’innesta la nuova vulgata suggerita anche da tanta parte della pubblicistica che si professa liberale. È innegabile che in questi anni abbia operato nella stampa quotidiana, in tv e in libri di successo un filone neorevisionistico teso a screditare l’antifascismo e a defascistizzare il fascismo.

«Se un autorevole storico come Piero Melograni dichiara al Corriere della Sera che il fascismo non è esistito ma è esistito il mussolinismo, posso contestarlo sul piano storiografico, senza però attribuirgli intenti ideologici. Certo, togliendo al fascismo i suoi attributi originari per i quali fu definito totalitario, si finisce per annacquarlo, facendone un fenomeno riducibile alla responsabilità di un solo individuo. E senza fare i conti con la vera natura del regime - nella complessità della sua origine, del suo svolgimento e della sua fine - sarà difficile affrontare con consapevolezza critica il problema dell’eredità fascista nelle istituzioni, nella politica, nella società e nei costumi degli ultimi sessant’anni. Ma una cosa più di tutto m’indigna».

Che cosa, professore?

«Che il nome di Renzo De Felice venga spesso citato per giustificare la riduzione del male del fascismo alle leggi antisemite e ridimensionare il problema della Rsi al patriottismo in buona fede».

Accanto al De Felice storico c’è un De Felice più incline all’uso pubblico della storia, cui si richiamano alcuni dei suoi eredi.

«A me interessa il grande studioso di storia. Sulle leggi razziali De Felice scrive che la responsabilità maggiore fu di Mussolini, della sua "incosciente megalomania" di trasformare gli italiani "in nome di principi e ideali che erano negazione di ogni principio e ogni ideale". Più chiaro di così. E ancora: "La tragica conclusione del fascismo è nelle sue stesse premesse e nella sua logica, nella sua sostanza antidemocratica e liberticida, nella sua mancanza di rispetto per i valori più elementari della personalità umana". Anche su Salò si espresse in modo inequivocabile, attribuendo alla Rsi l’origine della guerra civile. Non sono opinioni assolutorie».

Professore, non le sembra segno d’un grave ritardo culturale che ora ci troviamo a ripetere sul fascismo considerazioni che dovremmo considerare l’abc d’una coscienza democratica?

«Dopo le grandi passioni ideologiche d’una volta, su una spinta cinica e irrazionale il nostro paese ha forse rinunciato sia all’ideologia che alla conoscenza storica. Appare come svuotato, isterilito sul piano etico e nella coscienza civica. Sull’apologia del fascismo prevale l’apatia, l’insensibilità ai problemi della libertà. Gli italiani sembrano indifferenti alla storia, dunque più esposti alle semplificazioni. Mi chiedo cosa accadrà fra tre anni, quando ricorderemo la nascita dello Stato italiano. Forse riconosceremo che, soggettivamente, avevano ragione Metternich e Francesco Giuseppe nel voler mantenere l’Italia divisa e sottomessa? E invece Mazzini, Cavour, Garibaldi, Vittorio Emanuele II oggettivamente sbagliarono a renderla unita e indipendente?».

  
Ultimo aggiornamento ( giovedì 29 gennaio 2009 )
 
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