Centro Studi Repubblica Sociale Italiana
"Tra più fuochi": i 650mila italiani internati militari in Germania PDF Stampa E-mail
Scritto da Elena Pala   
venerdì 06 gennaio 2017

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È stata inaugurata il 28 novembre scorso per la prima volta in Germania una mostra permanente dedicata alla storia degli italiani internati militari (IMI). Sono 650.000 i militari italiani che all’indomani della firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943 accettano l'amara sorte di languire nei campi di internamento in Germania pur di non venir meno al giuramento fatto alla bandiera tricolore: sono i famosi internati militari italiani. Impiegati come lavoratori forzati nell’economia tedesca da guerra, oltre 50.000 moriranno in prigionia a causa di condizioni di vita e di lavoro disumane.

La mostra, dal titolo "Zwischen allen Stühlen. Die Geschichte der Italienischen Militärinternierten 1943-1945" (Tra più fuochi. La storia degli internati militari italiani 1943-1945), coordinata dagli storici Lutz Kilnkhammer, Brunello Mantelli, Enzo Orlanducci e Peter Steinbach, è stata promossa dal Centro di Documentazione sul lavoro forzato durante il Nazionalsocialismo di Berlino.

 

 

Il primo tratto di originalità della mostra è dovuto al fatto di essere stata allestita nella baracca 4 dell'ex lager 75/76 dell'"Ispettorato generale per l'edilizia della capitale del Reich" a Schöneweide. Si tratta dell’unico campo rimasto, perché diversamente dagli altri costruito in muratura, dei circa 30.000 esistenti alla fine della guerra. Il secondo tratto di originalità è costituito dallo sviluppo cronologico-tematico adottato: si va dall'alleanza militare del 1936 tra l'Italia fascista e la Germania nazista passando attraverso la sua rottura l'8 settembre 1943 quando Badoglio firma l'armistizio con gli anglo-americani per finire con gli anni dell’internamento dei nostri soldati.

Dei 650.000 militari italiani deportati nel Reich e nella Polonia occupata si raccontano le disastrose condizioni di prigionia attraverso documentazione di prima mano. Fotografie, video interviste, documenti sono i tasselli con cui è possibile ricostruire dapprima il drammatico trasporto dei prigionieri rinchiusi in un primo momento in caserme, campi sportivi e stadi di calcio vicini a stazioni ferroviarie. Il loro trasferimento, più che un viaggio, si rileva un calvario. I carri merci sono sovraffollati, il rancio insufficiente e le condizioni igieniche proibitive. Arrivati poi ai campi di prigionia i detenuti si rendono conto immediatamente dell’atmosfera carica di tensione e di forte animosità che regna nella popolazione tedesca. I sentimenti di rimprovero e di voglia di vendetta nei confronti dei Verräter (traditori) italiani trovano espressione in rozzi insulti. Del passaggio dell'Italia al fronte degli alleati angloamericani la mostra ne mette in risalto la strumentalizzazione propagandistica operata dai nazionalsocialisti. Ricorrendo a vecchi stereotipi degli italiani come "perfidi traditori" la stampa nazista mira ad eccitare gli animi contro il nuovo nemico. Non fa parola invece del fatto che il “tradimento italiano” costituisce per la Germania “un buon affare”. L’ex alleato da quel momento ha, infatti, a disposizione una manodopera gratuita di oltre mezzo milione di uomini da impiegare nella propria industria pesante e degli armamenti, nell’edilizia e nel settore minerario, oltre che nell’agricoltura. Le condizioni di vita del prigioniero, pur restando per tutti particolarmente punitive, variano a seconda del grado militare. Gli ufficiali godono di un trattamento meno punitivo. A differenza degli altri gruppi di prigionieri di guerra e dei lavoratori coatti civili, i militari italiani sono inoltre posti davanti alla scelta di entrare a far parte della Wehrmacht come volontari ausiliari o di continuare a combattere nell’esercito del nuovo Stato fascista risorto sulle sponde del Lago di Garda (la Rsi): scelta che viene effettuata da non più di 100.000 e va ricondotta soprattutto al desiderio di sfuggire ad una condizione di vita insopportabile e al calcolo di poter rientrare in Italia, per poi in maggioranza disertare.

La liberazione, l’attesa per il ritorno in patria nei campi per displaced persons e il rimpatrio sono gli ultimi capitoli di questa mostra resa possibile grazie anche alla disponibilità di istituzioni italiane – tra cui la Fondazione Micheletti di Brescia – e di famigliari di ex IMI pronti a mettere a disposizione le storie dei loro padri e dei loro nonni sotto forma di racconti, fotografie, documenti e oggetti. Un materiale archivistico prezioso che sarebbe auspicabile fosse recuperato, salvaguardato e debitamente valorizzato per risarcire i nostri deportati del torto subito e restituire visibilità ad una storia troppo a lungo colpevolmente ignorata.

 

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Una sezione anche nella rassegna in corso al MuSa di Salò

 

La mostra permanente "Zwischen allen Stühlen. Die Geschichte der Italienischen Militärinternierten 1943-1945" è visitabile presso il Centro di Documentazione sul lavoro forzato durante il Nazionalsocialismo al civico 5 di Behren Strasse a Berlino, da martedì a domenica dalle 10 alle 18. Ingresso gratuito. Sempre agli IMI è dedicata una sezione specifica nella mostra "E poi spunto l'alba. Era il 25 aprile" curata da Roberto Chiarini ed Elena Pala ed allestita al MuSa di Salò (Brescia), per info: www.musa.it 

Per rintracciare informazioni sugli IMI bresciani si può consultare la banca dati http://www.alboimicaduti.eu/index.php dove sono registrate le schede biografiche di oltre 50.000 IMI deceduti nei campi di prigionia tedeschi.

 

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Nell'estate '44 passaggio allo status di civili

 

 

Nell'estate del 1944 gli IMI passano dallo stato militare a quello di civili, concessione questa voluta dai vertici del Reich e finalizzata ad ottenere un rendimento migliore della manovalanza italiana nelle fabbriche tedesche mobilitate. Le condizioni di lavoro tuttavia non cambiano e le infrazioni, effettive o presunte, continuano ad essere severamente sanzionate dalla Gestapo. 

A dire il vero, per un breve periodo la situazione degli italiani pare migliorare. Lo stato di civili garantisce loro una maggiore libertà di movimento senza la sorveglianza della Wehrmacht, nonché la possibilità di comprarsi viveri sul mercato nero. Ben presto l'andamento della guerra porta ad un peggioramento degli approvvigionamenti.

In queste pagine è riportato il Reisenschein (il permesso di viaggio) per la cittadina, oggi polacca, di Bielsko, appartenuto al prigioniero bresciano Carlo Rocca, classe 1924. Rocca in quanto prigioniero lavoratore civile può recarsi in altre città e facendo piccoli lavoretti per i tedeschi ricevere pasti in più. La fame, il pesante lavoro e le malattie rimangono comunque per tutti una costante quotidiana.

 

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Perseguita l'"oziosità" anche se per malattia

 

 

La Gestapo persegue in modo inflessibile l'"oziosità sul lavoro", ossia il lavoratore che non rispetti, per qualsiasi ragione (anche la malattia o la spossatezza per fame), i ritmi imposti. Il malcapitato viene rinchiuso in "campi di rieducazione al lavoro" (gli Arbeitserziehungslager). Dopo in media due mesi di reclusione i prigionieri, ancora più macilenti e stremati, fanno ritorno alla propria squadra di lavoro. Sanzionato è anche lo "scarso rendimento" con la privazione di razioni speciali alimentari.

Viene inoltre punito qualsiasi contatto tra reclusi e tedeschi. Il divieto decade soltanto quando gli IMI passano alla condizione di civili, ma i rapporti con l’altro sesso continuano ad essere proibiti: si teme il venir meno della "preservazione della purezza del sangue tedesco". I trasgressori sono puniti o con il carcere o con l'impiccagione o con la deportazione nei campi di concentramento. Perseguitata è anche l’evasione dei reclusi, come ci testimonia  il mandato di cattura, riportato in queste pagine, spiccato dalla polizia segreta tedesca a carico del prigioniero Antonio Chitto di Urago d'Oglio a seguito della sua fuga in Franconia il 26 dicembre 1944.

 

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Al ritorno, per molti anni si sono sentiti esuli in patria

 

 

Al termine della guerra gli Alleati liberano complessivamente più di 11 milioni di lavoratori coatti. Per gli italiani inizia un periodo di attesa. Viene infatti data la precedenza al rimpatrio di cittadini di altri Paesi. Molti italiani ex internati cercano di tornare a casa per conto proprio. Il rimpatrio organizzato inizia invece nell'estate del 1945. I reduci rientrano in Italia attraverso il Brennero. Il trasporto avviene su autocarri o treni ma, prima di raggiungere casa, essi devono sottostare ancora ad una sosta, più o meno lunga, nei campi di transito. I più noti sono quelli di Bolzano e di Pescantina. 

I Centri di assistenza per i rimpatriati e i loro famigliari vengono organizzati dalla Croce Rossa, dai Comitati di Liberazione Nazionale, dalla Pontificia Commissione di  Assistenza e, a partire dall'estate del 1945, dal Ministero dell'Assistenza postbellica. I volontari della Pontificia Commissione sono riconoscibili dal distintivo riportante la scritta Charitas. In mostra è esposto un esemplare, prestato agli espositori dalla Fondazione Micheletti di Brescia, che viene riprodotto in questa pagina.

A queste istituzioni si affiancheranno nel corso del tempo l’ANEI (Associazione Nazionale Ex Internati) e l’ANRP (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia) per il disbrigo di pratiche militari, per la distribuzione dei sussidi, per l’organizzazione di reti di assistenza medica, per l’assistenza legale, per il supporto dei famigliari nella ricerca dei propri dispersi. È il caso, ad esempio, «dell’insegnante Gino Barbieri» che compila la scheda di ricerca del familiare Battista Barbieri. Nel documento qui riprodotto si può prendere visione dell’accorato appello rivolto dai parenti alla comunità bresciana. "Chi ne avesse notizie - è la loro invocazione -, chi avesse congiunti nello stesso campo [di Etzel], è vivamente pregato di rivolgersi alla famiglia dell'internato" allora residente al quartiere Leonessa, ex quartiere Littorio durante il fascismo. 

L’ANEI e l’ANRP continueranno la loro attività anche negli anni successivi al dopoguerra dedicandosi alla ricerca degli internati, alla ricostruzione della loro storia, alla pubblicazione di diari e memorie, all’organizzazione di mostre e alla creazione di luoghi della memoria. Nel percorso espositivo della mostra si riporta a mo’ di esempio la locandina della sezione bresciana dell’ANEI che con la Fondazione Civiltà Bresciana inaugurò nel 1987 al civico 5 di vicolo San Giuseppe a Brescia il Centro di documentazione sulla storia degli internati.

Gli ex internati militari italiani tornano in un Paese per loro quasi irriconoscibile. È cambiato politicamente: il fascismo è caduto, la monarchia è stata abolita. Economicamente: un alto tasso di disoccupazione rende difficile il loro reintegro nel posto di lavoro. Non solo il Paese in cui rientrano è mutato. Di massima è anche loro ostile. Gli ex IMI non sono accolti come concittadini cui è toccata la drammatica sorte di vivere e lavorare in campi di internamento. Il loro sacrificio si trasforma in una colpa. Sono ingiustamente accusati di aver lavorato volontariamente per i tedeschi. Per molti anni vivranno per così dire da “esuli in patria”. Si sentiranno perciò esclusi dal “mito di fondazione” dell’Italia democratica. Molti hanno reagito chiudendosi in un dolente silenzio. A lungo hanno preferito non riaprire la ferita sanguinante della loro prigionia Da noi la cultura ufficiale della memoria ha tardato a rendere omaggio agli ex internati. Solo dagli anni ’80 il loro rifiuto di collaborare con i tedeschi ha ottenuto il riconoscimento da parte delle istituzioni per essere stato a pieno titolo una «Resistenza senza armi». In Germania invece il loro destino continua ad essere pressoché misconosciuto. A tutt’oggi lo Stato tedesco non ha riconosciuto alcun risarcimento agli ex internati militari italiani considerandoli tuttora prigionieri di guerra e non lavoratori coatti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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