Boris Pahor, il rovescio delle foibe |
Scritto da Redazione | |
lunedì 07 aprile 2008 | |
Mario Baudino, Boris Pahor, il rovescio delle foibe. Parla lo scrittore, sloveno di Trieste, caso letterario 2008 con il racconto della sua esperienza nel Lager, in «La Stampa», 18 marzo 2008, p. 41.
Il suo libro, pubblicato per la prima volta nel '67, ha impiegato quasi trent'anni per essere riconosciuto ed esaltato in Francia, altri ancora in Germania e quaranta, anzi quarantuno, per arrivare davvero in Italia. Partendo da Trieste, Italia, anche se la lingua originaria era quella slovena. Boris Pahor, che qui è nato sotto gli Asburgo nel 1913, e qui, salvo le vicende della guerra e della deportazione narrate in Necropolis, è sempre vissuto, ripercorre con noi la sua strana storia di scrittore in un luogo che più triestino non si potrebbe, l'antico Caffè San Marco, dove due studenti lo avvicinano per chiedere una dedica sul libro. Mi avete riconosciuto, come? chiede divertito. L'abbiamo vista in televisione, rispondono senza problemi Carlo e Luca. Non è stata però la trasmissione di Fabio Fazio, che l'ha avuto ospite, a fare del suo romanzo-memoriale un bestseller. In realtà Necropolis ha cominciato fin da subito, appena uscito da Fazi (pp. 208, € 16), a raccogliere consensi, a diventare un caso e, nonostante non sia certo una storiella piacevole, a scalare le classifiche. Questa che Claudio Magris definisce nella prefazione «un'opera magistrale» racconta con secca asprezza visionaria un anno all'inferno, vissuto dall'autore deportato politico nel Lager tedesco di Natzweiler-Struthof, in Alsazia, per i suoi legami con la Resistenza slovena. Un anno nel cuore della morte come abitudine. «Su di noi si esercitò non la distruzione pianificata dell'Olocausto, ma quella organizzata attraverso fame e malattie», sottolinea. In Francia hanno riconosciuto in Pahor la prima grande voce dal mondo, sostanzialmente ignorato, della deportazione politica. In Italia tutte le porte, per quasi mezzo secolo, sono rimaste chiuse. «Forse non si voleva ammettere che nell'italianissima Trieste potesse esserci un grande scrittore sloveno». Dice proprio così, senza troppi pudori, questo signore di 95 anni che non da l'impressione di aver smesso di battersi. Del resto, l'Italia è stata sempre un po' avara con gli scrittori della sua Trieste italianissima. Ettore Schmitz, e cioè Italo Svevo, dovette attendere l'aiuto dell'amico James Joyce. Boris Pahor ha dovuto aspettare la consacrazione internazionale e la Legion d'onore francese per superare il confine invisibile. «Già nel '69 un amico, il professor Ezio Martin, di Pinerolo, approntò una traduzione di Necropolìs. La mostrammo a Claudio Magris, che mi disse di averne parlato con l'Einaudi. Ma non accadde nulla. Tentai con sei o sette editori. La Feltrinelli mi rimandò il plico senza neanche averlo aperto. Scrissi a Primo Levi, ma non rispose. La traduzione restò a prender polvere». Non si rivelò tuttavia inutile, perché alla fine la lesse Eugen Baucar, scrittore francese di origini slovene, che riuscì a convincere le edizioni della «Table Ronde». «Il libro uscì in Francia nel '90, ma solo nel '95, quando pubblicai in francese Primavera difficile, che ebbe parecchio riscontrò, ci fa un forte ritorno d'interesse». Primavera difficile fa parte tra l'altro della cosiddetta «trilogia triestina» nella ricca produzione di Pahor, romanzi che ripercorrono il periodo '43-'49 in città, dalla guerra alla costituzione del Territorio Libero: anni di conflitto, di ferite e di delitti. Foibe comprese. Su questo tema, però lo scrittore triestino ha idee molto precise, e certamente polemiche: per o esempio, sulla Giornata della Memoria. Che non gli va, «Non in questo modo, non com'è stata concepita». Critica il Presidente Napolitano, per quanto disse a proposito dell'espansionismo slavo. «A sette anni ho visto i fascisti bruciare la Casa della cultura slovena; mi è stato proibito di parlare la mia lingua, a scuola si veniva puniti se ti scappava mezza parola. Ci sono stati 120 mila esiliati sloveni, oltre ai crimini dei fascisti e dell'esercito durante la guerra. I campi di concentramento, i villaggi incendiati. Si fa presto a parlare di "slavi sanguinari". Ma chi sono? La grande disgrazia delle foibe non può essere uno strumento di propaganda antislovena». Il professor Pahor, docente di italiano per tutta la vita professionale, vicino al personalismo francese è «contro tutte le dittature», si infervora. «I comunisti italiani davano ai loro compagni jugoslavi i nomi delle persone da eliminare. Poi se ne sono andati tutti, e noi siamo rimasti qui. Io resto sulle posizioni della commissione mista italo-slovena, che ha lavorato per anni su questi temi, e i cui risultati sono rimasti nel cassetto. Gli orrori delle foibe durarono 40 giorni, non si possono mettere in un rapporto di causa-effetto con l'esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia, per il quale anche la propaganda italiana d'allora porta le sue belle responsabilità. Certo, fuggivano una situazione difficile e un futuro minaccioso; fuggivano dal comunismo titino, ma anche dalla prospettiva di ritrovarsi isolati, chiusi in un territorio senza più comunicazioni aperte con Trieste». Queste ferite sono quasi rimarginate, conclude. «Perché riaprirle? Appena se ne riparla a livello politico tornano attuali». Il problema vero, invece, «è fare di Trieste una città viva e plurinazionale, col suo Carso sloveno e, certamente, la lingua italiana largamente predominante. Più il dialetto: anche noi sloveni lo parliamo volentieri, è una specie di lingua franca di tutti i triestini». La parlava anche in Necropolis con un concittadino italiano che condivideva la sua sventura; prima con stupore, infine con dolcezza. A proposito di Necropolis, professore, com'è poi finita la storia? Siamo rimasti al '95. La Francia la celebra, l'Italia la ignora. «Andò avanti ancora per un bel po'. L'antica traduzione del '69 vinse un premio a Monfalcone. Il libro fu di nuovo sottoposto all'Einaudi, e anche all'Adelphi. Sembrava fatta, conobbi alcuni redattori dell'editrice milanese che erano molto favorevoli, vennero a trovarmi. Poi, la decisione: ancora no. I miei amici redattori erano molto dispiaciuti, espressero il loro rammarico. Sembrava proprio finita». Chi l'avrebbe mai detto, non era così. Quanta pazienza, professore. |
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Ultimo aggiornamento ( martedì 15 aprile 2008 ) |
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