Anita Loriana Ronchi, Dai repubblichini agli orfani di Salò che fecero un '68 nero, in «Giornale di Brescia», 24 febbraio 2009, p. 25.
Facevano irruzione nelle scuole, nelle università e nelle piazze italiane, poco dopo la fine della guerra, creando una presenza tanto rumorosa quanto inaspettata. Una folla composta da migliaia di giovani che agitavano i simboli del fascismo e ne cantavano gli inni, guidando infervorate manifestazioni studentesche e animando un movimento che, per capacità di mobilitazione e vivacità culturale, può essere addirittura considerato una specie di «Sessantotto nero». A questi giovani, protagonisti di un fenomeno che ha lasciato il segno nella vicenda della destra italiana, lo storico e giornalista Antonio Carioti ha dedicato il saggio «Gli orfani di Salò» (edito da Mursia), sui cui temi si è aperto [settimane fa] il nuovo ciclo dei Lunedì del San Carlino curato da Roberto Chiarini, con l'intervento dell'autore e del noto storico ed editorialista Sergio Romano, entrambi intervistati da Paolo Gheda, docente di Storia moderna e contemporanea all'Università della Valle d'Aosta. Esiste un'«anomalia» tutta italiana - ha rilevato l'ambasciatore Sergio Romano - nell'approccio alle complesse tematiche storiograflche: «Tra giornalismo e storia c'è una fondamentale differenza. Lo storico ha bisogno di distacco, di verificare le fonti e deve avere il minor numero possibile di pregiudizi. Il giornalista è profondamente coinvolto nelle vicende quotidiane e gli si può perdonare una certa partigianeria. In realtà ciascuno dovrebbe fare il proprio mestiere». Le ragioni dell'anomalia o malattia tutta italiana, di invasione di campo, stanno nel tasso di ideologia che ha pervaso la nostra società nel '900, per cui la storia è stata strumentalizzata a fini della politica e del potere. Un atteggiamento che avrebbe gravato proprio sull'analisi di quei gruppi giovanili che vissero l'avventura della Repubblica di Salò come un mito eroico, l'ultimo sussulto di dignità della nazione. «Il libro di Carioti è stato percepito come mirato a riscattare una generazione - ha notato Romano -. Egli ha scritto piuttosto una pagina bianca di storia italiana. I fatti raccontati sono doppiamente clandestini: perché lo furono i movimenti descritti e perché la storia ufficiale li aveva ignorati: parlarne significava attribuire loro una dignità cui non avevano diritto». Non aver studiato fino in fondo il fascismo ha però comportato che non si sia potuto nemmeno «comprenderne gli eredi». Carioti - che nella sua ricerca ha intervistato diversi «giovani dell'epoca» - riferisce che la loro era una condizione psicologica particolare: allevati per lo più nel culto di una nazione che, sotto la guida di Mussolini (visto come un semidio), avrebbe dovuto dominare il Mediterraneo e tornare ai fasti dell'antica Roma, accusarono lo choc della sconfitta bellica e soprattutto dell'8 Settembre 1943. «Questo esercito di ragazzi certo non aveva una consapevolezza politica forte - osserva Carioti -. Ma, se in Italia esiste l'esempio unico di un Movimento sociale italiano che ha rappresentato una presenza stabile in Parlamento per tutta la prima Repubblica, ciò è dovuto proprio al ruolo determinante giocato dai giovani che avevano aderito sotto la spinta politica alla Repubblica sociale». |