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Scritto da Redazione   
giovedì 18 giugno 2009

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Il Gentile che s'inchinò al totalitarismo
Scritto da elena   
lunedì 08 giugno 2009

Paolo Acanfora, Il Gentile che s'inchinò al totalitarismo, in «Giornale di Brescia», 24 aprile 2009, p. 53.

 

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Sessantacinque anni fa, il 15 aprile del 1944, veni­va ucciso Giovanni Gentile, senza dubbio l'intellettuale più significativo e di maggior presti­gio dell'Italia fascista. Filosofo idealista, che con Benedetto Croce aveva rappresentato una delle espressioni più importanti della cultura italiana degli inizi del Novecento, Gentile divenne dopo la marcia su Roma un punto di riferimento nell'articolato universo ideologico fascista.

In diversi lavori sono stati scandagliati la biografia intellettuale ed il sistema filosofico gentiliano, ma è mancata fino ad oggi un'opera di ricostruzione storica capace di restituire l'immagine che i fascisti, sostenito­ri ed oppositori del filosofo siciliano, hanno proiettato della sua filosofia, della sua proposta politica e del ruo­lo svolto nelle istituzioni del regime.

La casa editrice Il Mulino ha recentemente pubbli­cato il volume «Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e anti-gentiliani nel regime fascista» della giovane storica Alessandra Tarquini, volume che va nella direzione so­pra indicata. Il lavoro di ricostruzione, appronta­to con notevole cura, ci offre un panorama stori­co interessante per la comprensione non solo della personalità gentiliana ma della comples­siva cultura fascista.
Ultimo aggiornamento ( domenica 05 luglio 2009 )
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Dai repubblichini agli orfani di Salò che fecero un '68 nero
Scritto da Redazione   
lunedì 08 giugno 2009

Anita Loriana Ronchi, Dai repubblichini agli orfani di Salò che fecero un '68 nero, in «Giornale di Brescia», 24 febbraio 2009, p. 25.

 

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Facevano irruzione nelle scuole, nelle università e nelle piazze italiane, poco dopo la fine della guerra, creando una presenza tanto rumorosa quanto inaspettata. Una folla composta da migliaia di gio­vani che agitavano i simboli del fasci­smo e ne cantavano gli inni, guidando infervorate manifestazioni studente­sche e animando un movimento che, per capacità di mobilitazione e vivaci­tà culturale, può essere addirittura considerato una specie di «Sessantotto nero». A questi giovani, protagonisti di un fenomeno che ha lasciato il segno nella vicenda della destra italiana, lo storico e giornalista Antonio Carioti ha dedicato il saggio «Gli orfani di Salò» (edito da Mursia), sui cui temi si è aper­to [settimane fa] il nuovo ciclo dei Lunedì del San Carlino curato da Roberto Chiarini, con l'intervento dell'autore e del noto stori­co ed editorialista Sergio Romano, en­trambi intervistati da Paolo Gheda, do­cente di Storia moderna e contempora­nea all'Università della Valle d'Aosta.

Esiste un'«anomalia» tutta italiana - ha rilevato l'ambasciatore Sergio Ro­mano - nell'approccio alle complesse tematiche storiograflche: «Tra giornali­smo e storia c'è una fondamentale dif­ferenza. Lo storico ha bisogno di distac­co, di verificare le fonti e deve avere il minor numero possibile di pregiudizi. Il giornalista è profondamente coinvol­to nelle vicende quotidiane e gli si può perdonare una certa partigianeria. In realtà ciascuno dovrebbe fare il pro­prio mestiere». Le ragioni dell'anoma­lia o malattia tutta italiana, di invasio­ne di campo, stanno nel tasso di ideolo­gia che ha pervaso la nostra società nel '900, per cui la storia è stata strumenta­lizzata a fini della politica e del potere.

Un atteggiamento che avrebbe gra­vato proprio sull'analisi di quei gruppi giovanili che vissero l'avventura della Repubblica di Salò come un mito eroi­co, l'ultimo sussulto di dignità della na­zione. «Il libro di Carioti è stato perce­pito come mirato a riscattare una gene­razione - ha notato Romano -. Egli ha scritto piuttosto una pagina bianca di storia italiana. I fatti raccontati sono doppiamente clandestini: perché lo fu­rono i movimenti descritti e perché la storia ufficiale li aveva ignorati: parlar­ne significava attribuire loro una digni­tà cui non avevano diritto».

Non aver studiato fino in fondo il fa­scismo ha però comportato che non si sia potuto nemmeno «comprenderne gli eredi». Carioti - che nella sua ricerca ha intervistato diversi «giovani dell'epoca» - riferisce che la loro era una condizione psicologica particolare: alle­vati per lo più nel culto di una nazione che, sotto la guida di Mussolini (visto come un semidio), avrebbe dovuto do­minare il Mediterraneo e tornare ai fa­sti dell'antica Roma, accusarono lo choc della sconfitta bellica e soprattut­to dell'8 Settembre 1943. «Questo eser­cito di ragazzi certo non aveva una con­sapevolezza politica forte - osserva Ca­rioti -. Ma, se in Italia esiste l'esempio unico di un Movimento sociale italiano che ha rappresentato una presenza sta­bile in Parlamento per tutta la prima Repubblica, ciò è dovuto proprio al ruolo determinante giocato dai giovani che avevano aderito sotto la spinta po­litica alla Repubblica sociale».

Ultimo aggiornamento ( lunedì 06 luglio 2009 )
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